Lo scoppio nel porto/Le verità rivali sul Libano e gli aiuti necessari

Lo scoppio nel porto/Le verità rivali sul Libano e gli aiuti necessari

di Vittorio E. Parsi
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Giovedì 6 Agosto 2020, 00:09 - Ultimo aggiornamento: 00:40
Quella della “tragica fatalità” resta l’ipotesi più accreditata tra le cause della tremenda esplosione che martedì pomeriggio ha semidistrutto Beirut: almeno 135 morti, altrettanti dispersi, 5.000 feriti, 300.000 senzatetto e 3,5 miliardi di dollari di danni stimati. È la spiegazione più probabile e, in ogni caso, quella che, paradossalmente, crea meno imbarazzo a tutti: dentro e fuori il Libano. Come se non fosse una mostruosa manifestazione di criminale incuria lasciare stipate per sei anni in un magazzino del centralissimo porto della capitale libanese 2.700 tonnellate di nitrato di ammonio sequestrate su un cargo moldavo. A chi, se non alle autorità politiche e amministrative della “repubblica dei cedri”, sarebbe toccato proteggere i cittadini di Beirut (quasi metà della popolazione libanese) dai rischi di un simile disastro? Ma illudersi su un qualunque senso di responsabilità da parte della classe politica libanese, e delle élite settarie che la esprimono per tutelare i propri interessi economici, significa non conoscere le dinamiche di potere di un Paese tanto bello quanto sfortunato.

C’è voluto il Covid-19 per svuotare le piazze dalle decine di migliaia di cittadini – di ogni classe sociale e di ogni appartenenza religiosa – che, contro la paralisi suicida imposta dagli egoismi contrapposti delle rispettive “leadership”, invocavano la riforma radicale del sistema istituzionale che aveva tenuto a battesimo il Libano “mandatario” (tra le due guerre) e poi quello indipendente, che aveva concorso a trascinarlo nella lunga guerra civile (tra il 1975 e il 1990) ed era transitato, rivisto nelle quote ma non nei meccanismi spartitori, negli accordi di Taef del 1990, i quali avevano sancito il tramonto dell’egemonia cristiano-maronita e l’ascesa della componente sciita, oggi maggioritaria.


Neppure l’omicidio di Rafik Hariri con la fine dell’occupazione siriana (2005) e l’invasione israeliana (2006, la terza) erano riusciti a cambiare lo stato delle cose. Semmai avevano spostato il baricentro del sistema politico interno a favore del partito-milizia di Hezbollah, anche grazie all’inedita alleanza con i maroniti raccolti intorno al generale Aoun, eletto in seguito presidente della Repubblica.
Nel frattempo dentro e intorno al Libano è successo di tutto: la guerra civile in Siria, con il coinvolgimento decisivo e costoso (in termini politici e umani) di Hezbollah e con l’afflusso di oltre un milione e mezzo di profughi (su una popolazione di sei milioni) e il sempre più tiepido appoggio dell’Occidente a mano a mano che l’Iran aumentava il suo peso regionale. Poi c’è stato il default delle settimane scorse, con la drammatica svalutazione della lira libanese, il blocco dei depositi e l’impossibilità di prelevare valuta straniera, in un’economia da sempre “dollarizzata”. E il covid-19, la crisi alimentare e ora questo.


Si diceva che la spiegazione prevalente è quella dell’incidente. Ma rimane il sospetto di altre più oscure cause. Fonti anonime di Beirut (riportate dal sito online del quotidiano Naharnet) avanzano l’ipotesi di missili partiti dal mare o dal cielo sul Mediterraneo. E non è un mistero per nessuno che Israele violi sistematicamente lo spazio aereo e marittimo libanese (come registra da sempre Unifil, di cui ancora una volta siamo al comando). Tel Aviv nega, ma contemporaneamente accusa Hezbollah di occultare depositi di armi proprio nel porto di Beirut, in ciò fornendo un movente più che un alibi. Ovviamente il movimento di Nasrallah a sua volta smentisce, ma indica Israele come responsabile dell’esplosione, così rafforzando i dubbi sulle proprie opache attività. Sullo sfondo c’è anche la contesa per i giganteschi giacimenti di gas nelle acque tra Cipro, Libano e Israele e il crescere della tensione tra Hezbolalh e lo Stato ebraico, parallelamente al consolidamento del regime di Asad in Siria, alle peripezie di Netanyauh, alle difficoltà interne di Hezbollah.

Si tratta di ipotesi che, nella ininterrotta “fog of war” che investe la regione, mantengono una loro “plausibilità”, ancorché al momento non fondata su solidi indizi. Ce n’è abbastanza per avanzare “verità rivali”, nessuna in grado di essere convincente per tutti, ognuna capace di alimentare divisione, rancore e propaganda. Ci ha pensato anche il presidente Trump a gettare benzina sul fuoco, nella quotidiana personale ricerca di armi di distrazione di massa rispetto alla sua disastrosa gestione della pandemia, a ormai poche settimane dal voto negli Stati Uniti e con sondaggi (per lui) pessimi.

In ogni caso ora è il momento della concreta e immediata solidarietà. Senza scorte in valuta, con il porto da cui transita la quasi totalità del commercio chiuso (il Libano confina solo con Israele e la Siria), con il turismo rovinato dal Covid, un governo inconsistente, una crisi economica e sociale senza precedenti e la sua capitale distrutta, il Libano rischia di saltare. Con conseguenze disastrose per il suo popolo e per l’intera regione. Sta a tutti noi concorrere a cercare di impedirlo.
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