di Alessandro Campi
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Mercoledì 6 Gennaio 2021, 00:10

La verità – dura da riconoscere per il governo, dura da accettare per gli italiani – è che lo pseudo-lockdown natalizio non è servito a granché. D’altronde, se stabilisci una regola ferrea ma poi introduci eccezioni finalizzate a evaderla non puoi aspettarti che essa funzioni o venga rispettata. Per le feste dovevamo stare tappati in casa, ma fatta salva la possibilità di andare a trovare amici e parenti una volta al giorno. 

Il risultato – con i musei saldamente chiusi e i centri commerciali allegramente aperti – è quello, sconfortante, che abbiamo sotto gli occhi: i contagi sono rimasti alti (come le morti), le scuole dunque non riapriranno per la data annunciata e per tutto questo mese non se parlerà di uscire dalle regioni di residenza. Insomma, nuove restrizioni, con la promessa implicita che a Pasqua, se ci comporteremo bene, ritroveremo certamente la libertà perduta. Forse. 
Nel frattempo è partita la campagna di vaccinazione. È, nel giudizio dei più, l’unica speranza che abbiamo per uscire da questa situazione. Ma a parte le lentezze nelle forniture e i ritardi nelle somministrazioni che si spera di colmare, resta il problema che per vaccinare due volte almeno quaranta milioni di italiani, al ritmo (ottimistico) di 200.000 vaccinazioni quotidiane, ci vogliono comunque 400 giorni. Inutile farsi troppe illusioni. Se va bene parliamo del febbraio 2022 come termine della campagna. A quel punto – promette il Commissario Arcuri – avremo quasi sicuramente un vaccino “made in Italy”. Vuoi mettere la soddisfazione! La stessa, viene da dire, che ci ha dato l’app Immuni, altro pilastro autarchico della lotta al Covid di cui nessuno, per pudore e decenza, parla più.

In tutto questo, con l’economia sempre più in affanno e con milioni di italiani che vanno avanti ormai solo grazie alle sovvenzioni di Stato (ma fino a quando, prima di dichiarare bancarotta?), ci siamo anche permessi il lusso di una crisi politico-istituzionale al termine della quale, par di capire dai rumori del Palazzo, si produrrà al massimo un giro di poltrone. Il nuovo esecutivo lo si chiama già, senza nemmeno vergognarsi troppo in pubblico, Conte ter. Ovvero, l’eterno gattopardismo italico: cambiare per lasciare tutto com’è. 

Conte, pur di salvarsi e scongiurare una crisi formale (con tanto di dimissioni, ascesa al Colle e resa dei conti in Parlamento), sembra aver deciso un patteggiamento con Renzi sui diversi punti che quest’ultimo gli ha, peraltro legittimamente, contestato: rinuncia alla delega sui Servizi, un Recovery Plan da riscrivere in modo meno generico (quanto ai modi e tempi di utilizzazione dei fondi europei), una guida del governo meno accentratrice e solitaria. Per uno che è già passato con disinvoltura da Salvini a Zingaretti e che tante volte ha cambiato idea su questioni essenziali (dall’immigrazione all’Europa) quest’ennesima giravolta non dovrebbe rappresentare un grande sforzo. In fondo si tratta di succedere a se stesso: ovviamente non per il bene proprio, ma per quello del Paese.

Se questo sarà lo sbocco effettivo della crisi in corso, ci si chiede naturalmente quanto basti un rimpasto – anche ammesso che nel nuovo (in realtà vecchio) governo entrino, come si dice, i big dei diversi partiti – per smetterla con lo spirito di improvvisazione, le divisioni tra alleati, i reciproci ostruzionismi e il decisionismo ad uso delle telecamere che hanno contraddistinto l’azione dell’esecutivo negli ultimi mesi e, in particolare, la gestione della pandemia, a dispetto dei toni ora autocelebrativi, ora inutilmente trionfalistici, ora insopportabilmente paternalistici, che abbiamo dovuto spesso sopportare in diretta televisiva ad opera proprio di Conte.

Dell’esistenza di simili problemi, se ne è avuta conferma durante l’ultimo, per certi versi psicodrammatico, Consiglio dei ministri notturno: con il M5S, Italia Viva e il Pd che, per partito preso e per ragioni di pseudo-coerenza ideologica, senza nulla concedere al buon senso e alla gravità del momento, hanno litigato per ore sulla data di riapertura delle scuole.

Con grillini e renziani favorevoli a mantenere la scadenza del 7 gennaio, mentre i democratici puntavano ad una riapertura dopo il 15. Alla fine, pur di evitare una rovinosa rottura, ne è scaturito l’ennesimo compromesso, tuttavia inutile, visto che diverse Regioni sul ritorno in classe faranno di testa loro. E visto che l’unica cosa che doveva essere fatta in queste settimane di fermo obbligato – vale a dire un piano dei trasporti e un’organizzazione della didattica in presenza che permettesse alle scuole di ripartire con la massima sicurezza possibile – nessuno l’ha fatta. Famiglie, docenti, studenti e studentesse, lasciati a se stessi e in un clima di assoluta incertezza a due giorni dalla scadenza tanto attesa, ringraziano sentitamente.

C’è tuttavia un risvolto positivo di questa crisi che non bisogna lasciarsi sfuggire, anche se rischia di essere, in questo difficile frangente, una mera consolazione. Per i ritmi e i toni con cui si sta svolgendo, degni della peggior partitocrazia da Prima Repubblica, essa rappresenta la fine persino salutare di un equivoco o abbaglio politico. Quello per cui l’avvento trionfale sulla scena pubblica del Movimento 5 Stelle (e dell’esercito di outsider che esso ha immesso nei gangli dello Stato italiano in ruoli di grandi responsabilità) avrebbe dovuto rappresentare l’inizio di una autentica rivoluzione politica e del costume, dopo decenni di malaffare e di cattivo governo. Una rivoluzione nel segno della trasparenza, dell’effettiva partecipazione dei cittadini alla gestione del potere, della lotta agli sprechi, della valorizzazione del merito individuale contro i privilegi di casta, del superamento della logica settaria tipica dei partiti, ecc. 

Ma non è andata esattamente così. Il grillismo – rapidamente passato dall’utopia di una società integralmente digitalizzata alla pratica dell’assistenzialismo di Stato come motore di consenso, dalla lotta contro il Sistema all’occupazione sistematica del medesimo – non ha prodotto alcuna catarsi collettiva. Mentre Conte, ormai lo si è capito, non è il redentore o l’uomo nuovo a lungo atteso, capace di far dimenticare generazioni di pessimi politicanti, semmai un abile mediatore, uno scaltro navigatore, un democristiano d’antico conio che in queste ore se la sta vedendo, per ragioni di poltrone, con un altro democristiano d’antico ceppo. Insomma, nulla di nuovo, l’Italia mediocre di sempre.

L’unico vantaggio, appunto una consolazione, è che se per mettere definitivamente a nudo il semi-bluff della rivoluzione liberale di Berlusconi (anch’egli aveva promesso di cambiare il Paese alla radice) c’è voluto quasi un quindicennio, per capire che l’inesperienza al potere e il moralismo urlato dei guardiani del popolo, che le invettive di Grillo e seguaci possono generare solo caos e una precaria gestione dello status quo (senza nemmeno frenare gli appetiti mondani che l’accesso al potere spesso produce anche nel più virtuoso degli esseri umani) è bastato meno di un quinquennio. Messa così è già un guadagno di tempo.

Alla fine, come accennato, avremo probabilmente il Conte tris, qualunque cosa significhi. Ma almeno non avremo più nulla su cui illuderci o su cui investire sul piano delle aspettative. Se una cosa gli italiani hanno imparato sulla loro pelle, dacché l’Italia esiste come Paese unito, è che nei momenti tragici debbono salvarsi da soli e che poco possono aspettarsi da chi lo governa. La storia, ahimé amara, si sta ripetendo.

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