di Paolo Balduzzi
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Mercoledì 9 Dicembre 2020, 00:10

Si tratterà certamente solo di un piccolo ritardo, ne sono sicuro. Ma l’impreparazione sulla vicenda dei rimborsi di Stato per gli acquisti in modalità elettronica è davvero emblematica, sotto tanti punti di vista. Innanzitutto, è stucchevole l’ennesimo ricorso a un termine straniero quando non ce n’era assolutamente bisogno. Ne ha già scritto ieri egregiamente Federico Guiglia, proprio sul Messaggero. La scelta fa innervosire ancora di più quando questo abuso per motivi commerciali o estetici, chiamiamoli così, fa coppia con un’assurda difficoltà nell’utilizzo delle lingue straniere ove strategico se non addirittura necessario: ad esempio, quando una università volesse istituire un corso di studi in inglese. 


Similmente stucchevole è l’enfasi data alla tecnologia nel momento in cui proprio sulla tecnologia lo Stato scivola e non mantiene la sua promessa. E poi: tanto sbandierare una app che ancora non funziona adeguatamente e nessuna preoccupazione per un divario digitale ancora da colmare in tutto il Paese. Come dice il proverbio, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. E che il mare fosse vasto e periglioso ce ne eravamo già accorti. L’iniziativa del rimborso era già stata annunciata dal premier l’anno scorso, avrebbe dovuto partire a luglio ma, naturalmente, non eravamo pronti. E abbiamo rimandato il tutto a gennaio. 

Salvo annunciare, con incauto ottimismo, la sua partenza in via sperimentale proprio a dicembre, un mese prima del previsto. Più sperimentale di così, non si poteva: tanto è vero che l’inizio di dicembre è stato spostato dall’1 all’8. Ed eccoci qui, nel giorno dell’Immacolata, a lasciare immacolata anche la nostra app “IO/PAgoPA”, inutilizzabile dai più per quei “motivi tecnici” che tutto giustificano e nulla spiegano. Deprimente, per uno Stato che introduce un’iniziativa di questo tipo, venire superato da operatori privati che invece, a quanto pare, erano già in grado nella giornata di ieri di offrire il servizio a tutti i propri affiliati.

Questa vicenda è emblematica anche perché dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che le buone idee non bastano. Devono esserne studiate le conseguenze, nonché evidenziati e corretti i punti deboli. Queste idee dovrebbero essere prima sperimentate su piccola scala e infine trasformate in realtà. È ciò che distingue la progettazione dall’improvvisazione, la visione strategica dalla politica dell’annuncio. Non che il rimborso sia necessariamente una buona idea, sia chiaro. Per saperlo bisognerebbe capire innanzitutto a cosa serve. A stimolare i consumi? A combattere l’evasione fiscale? Ad alleggerire la spesa degli italiani? A combattere la diffusione delle banconote fasulle? Anche su questo, si attendono risposte.
Ma il punto centrale, e che permette di passare da una valutazione del singolo episodio a una considerazione generale, è il seguente: la reputazione conta.

Vale per le persone, vale a maggior ragione per le istituzioni. Non è una regola che si incontra solo nei modelli teorici, tutt’altro: la credibilità condiziona comportamenti, reazioni, aspettative. Un annuncio, una scadenza, una promessa vanno rispettati, a meno di condizioni particolarmente sfavorevoli non lo impediscano. È sul rispetto di queste promesse che un’istituzione costruisce la sua reputazione.

Un esempio lampante dell’effetto perverso di non rispettare una promessa è quello delle campagne elettorali. È infatti ormai comunemente accettato dagli elettori che in campagna elettorale si possa promettere qualunque cosa, senza chiederne conto. Perché si sa già a priori che la maggior parte di queste promesse non saranno rispettate. Tagli delle tasse senza dichiarare le coperture, miglioramento dei servizi senza spiegarne le modalità: le campagne elettorali sono un porto franco dove qualunque annuncio è possibile. E quindi non viene creduto. La conseguenza è stata, nel corso del tempo, il peggioramento del dibattito e, me lo si permetterà, anche della classe politica. Il pericolo è proprio questo: che prima o poi smetteremo di credere anche agli annunci di istituzioni come il Parlamento, il Governo, il Presidente del consiglio. Sono cose che chi fa politica non può ignorare o sottovalutare. Provate a immaginare due Paesi che devono indebitarsi. Uno ha sempre onorato i propri creditori e ha sempre usato bene queste risorse per investimenti che garantiscono la crescita; l’altro ha sempre tirato a campare, usato i prestiti per finanziare spese correnti o inefficienti, senza mai uno sforzo per ridurre il debito pubblico. Chi tra i due Paesi dovrà pagare un prezzo più elevato per indebitarsi? Naturalmente quello con la reputazione peggiore, quello che non rispetta le promesse fatte, quello che fa cose diverse da quanto annunciato. E un prezzo del debito più elevato si traduce in imposte più alte o in spese da tagliare. 


Un altro esempio? Immaginiamoci un Paese che annunci di voler combattere l’evasione fiscale e che però non perda occasione di introdurre un condono fiscale appena ne ha l’occasione. Un chiaro incentivo proprio a non pagare le tasse, altro che lotta all’evasione. Veramente una pessima prospettiva quando ormai siamo agli sgoccioli per presentare il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Finalmente circola una bozza del governo, più persone saranno coinvolte e la discussione si potrà allargare. Ma che fiducia abbiamo che questo piano verrà realizzato? Le raccomandazioni europee sulla necessità di migliorare la burocrazia, la giustizia civile e amministrativa, la sostenibilità del sistema previdenziale e, dulcis in fundo, il nostro debito pubblico, giacciono inascoltate da anni. Se vogliamo diventare un Paese che cresce, abbiamo ben altro da fare che far funzionare una app. Ad oggi, purtroppo, ce la caviamo male anche con quest’ultima. 
 

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