Non è censura, è cultura. Non è oscurantismo, è rispetto per la scienza. Il fatto è questo: Facebook ha rimosso, perché «fanno disinformazione», le pagine di alcune associazioni no vax. Ha deciso di intervenire contro le fandonie di quelli del “dalli al medico, all’epidemiologo e a chi li manovra e trama con i vaccini!”. Pur mantenendo saldo il principio della libertà di pensiero, non bisogna esagerare. Specie in una fase così delicata, in cui è in gioco la vita di tutti e il vaccino è l’unico rimedio possibile.
A livello pop, si scherza, si minimizza, si confondono sciaguratamente, in nome del disprezzo della sapienza e di un senso di inferiorità generalizzato e demagogico nei confronti della competenza, le gerarchie culturali tra gli argomenti scientificamente fondati e quelli prodotti e diffusi dalla ciarlataneria più andante. Che trova purtroppo nei social terreno di coltura e arma di diffusione e di distrazione di massa.
E dunque i virologi, ma non solo loro, fanno bene a plaudire alla scelta di Facebook. Subito contestata da Comilva, l’associazione per la libertà vaccinale, pronta a querelare il social network. Lo stesso su cui sono piovute offese e minacce nei giorni scorsi contro l’infermiera dello Spallanzani che per prima si è vaccinata e ora, per difendersi dagli haters, si è cancellata dai social. Per non dire del virologo Bassetti che, dopo essere stato a sua volta insultato, si è rivolto a Facebook: «Intervenga per difendere la scienza».
In Italia sono state imposte per legge le vaccinazioni contro il vaiolo (1888), la difterite (1939), la polio (1968). Adesso invece, con una campagna vaccinale che stenta a prendere il largo, non s’è scelto il metodo dell’obbligo vaccinale ma quello della persuasione graduale e paziente (ma la pazienza ha un limite) nei confronti di quel venti per cento di italiani che, stando a un sondaggio nazionale di dicembre, non vuole fare il vaccino e di quel 40 per cento che vuole farlo ma non subito, per vedere l’effetto che fa.
La reazione di Facebook, non censura ma buon senso, deve valere insomma come stimolo al nostro governo a prendere sul serio la battaglia culturale in corso e a combatterla senza timidezze e furberie populiste. Manca il salto di qualità che impegni la politica - oltre che nell’efficienza della battaglia sui vaccini, che arrivano tardi, vengono fatti con lentezza e tra troppe diseguaglianze tra regione e regione e anche in questo la Lombardia è una riprova di un’eccellenza che non esiste - in una lotta culturale visibilissima, per dire con chiarezza che il vaccino è l’antidoto necessario. E per farne tanti, bene e subito: così da dare una lezione agli avversari.
Meno c’è chiarezza su questo e più si genera quel caos che i cittadini già avvertono e che favorisce l’incunearsi e il diffondersi delle posizioni più irresponsabili, e poco patriottiche, di diffidenza nei confronti del rimedio anti-virale trovato a tempo di record. Ogni fiancheggiamento - sia pure spacciato per rispetto delle idee di tutti - alla cultura irrazionalista non è esempio di democrazia ma di arrendevolezza. E così non va.