di Carlo Nordio
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Martedì 5 Gennaio 2021, 00:42

«Questo governo va avanti in uno strano paradosso: deciso solo a essere indeciso, risoluto ad esser irrisoluto, solido per fluidità, capace solo nell’impotenza». Non sono i rimproveri di Renzi a Conte, ma quelli indirizzati da Churchill all’inetto Stanley Baldwin il 12 novembre 1936. Ma si adattano bene all’assente strategia del nostro governo contro il Covid. Purtroppo, dopo aver compromesso, con gli oscillanti apri e chiudi una serie di attività produttive, ora questa indecisione vulnera uno dei cardini dello Stato, cioè la Scuola. Nessuno, fino alla decisione di ieri sera, era in grado di capire cosa sarebbe accaduto dopo queste singolari vacanze di Natale. La ministra Azzolina voleva riaprire a tutti i costi. Gli esperti dicevano che sarebbe stato un suicidio. Il Veneto, il Friuli, le Marche, la Sardegna e il Lazio avevano già deciso di fare di testa loro. E solo a quel punto il governo si è ridestato. 

Va detto che questo andamento esitante e confuso era ampiamente prevedibile, e si era già manifestato in quella tela di Penelope costituita dal disfare quello che era stato fatto poco prima, da parte delle stesse persone. In effetti non s’era mai visto un premier rallegrarsi di smentire le decisioni adottate quando guidava il governo precedente. Ma questa è ragion politica, e possiamo anche capirla. Quello che invece non si capisce, e meno ancora si tollera, è che adesso questi tentennamenti compromettano gravemente il nostro sistema educativo, con le conseguenze che graveranno, come il gigantesco debito pubblico, sulle prossime generazioni. La nostra scuola, dalla cosiddetta rivoluzione del ‘68, non ha più goduto di buona salute. E’ stata vittima del sindacalismo invasivo, della miope arrendevolezza democristiana, dell’avvilimento della meritocrazia, dell’umiliazione dei docenti, dell’insidia di teorie pedagogiche stravaganti e più in generale dell’abbandono di quel minimo di serietà e di autorevolezza senza le quali non c’è educazione né cultura.

Tuttavia, bene o male, ha vivacchiato. Come la nostra Giustizia, altrettanto scalcagnata, ha comunque assicurato i servizi essenziali, e talvolta, inciampando nella professionalità, ha anche sfornato allievi preparati. Ora, sotto la minaccia del Covid, più che crollare con fragore rischia di vaporizzarsi per inerzia governativa. E questo, se possibile, è anche peggio di una soppressione violenta.

Quando, in febbraio, scoppiò la pandemia, omissioni e incongruenze furono più o meno giustificate, perché nessuno di noi immaginava una simile catastrofe. Ma quando in primavera l’intero Paese fu chiuso per bloccare i contagi, le prospettive erano chiare. A parte le esilaranti manifestazioni di ottimismo - che saremmo diventati più buoni, che dovevamo trasformare la disgrazia in opportunità ecc.

ecc. - si capì perfettamente che gli studenti avrebbero costituito la massima fonte di contagio, sia per la loro naturale vivacità sia per la difficoltà dei controlli. E qui la dissennatezza divenne colpa. Infatti, mentre nelle aule esisteva una pur minima disciplina che avrebbe imposto il distanziamento, la protezione e l’igiene, il problema vero consisteva nei trasporti, dove gli studenti si sarebbero ammucchiati senza remore né sorveglianza. L’unica soluzione, per garantire lo svolgimento delle lezioni e un minimo di sicurezza era programmare in anticipo, con lungimiranza organizzativa e finanze adeguate, un sistema integrato, coinvolgendo ad esempio quei settori privati che soffrivano di sviamento di clientela. Parigi, nel 1914, fu salvata dai tassisti, che trasportarono ogni giorno al fronte migliaia di uomini per fronteggiare sulla Marna l’avanzata tedesca. Un secolo dopo, il nostro governo si è baloccato con i banchi a rotelle, lasciando alle Regioni, che non avevano né gli strumenti normativi né le risorse finanziarie per provvedere, il compito di arrangiarsi. Da lì, un continuo andirivieni di proposte formulate e subito rimangiate e poi, daccapo, riprese. Che oggi lasciano agli studenti un patrimonio di confusione. 

E questo è l’aspetto più grave. Perché questa indecisione non ha solo effetti sui programmi scolastici che potranno, sia pur con fatica, esser recuperati. Ha effetti sulla fragile psicologia degli adolescenti, che hanno bisogno di punti fermi e di orizzonti definiti. Questi ragazzi, nonostante le apparenti turbolenze dell’età, sono i primi a soffrire della mancanza di idee. Anche quando, come nelle rivolte sessantottine, si ribellavano all’ordine costituito, lo facevano sognandone uno nuovo, per quanto perverso, caricaturale e magari violento. Abbandonarono i grembiuli, ma li sostituirono con l’eskimo. Bruciarono le antologie, ma si intrupparono dietro lo stupido libretto di Mao. Derisero i professori, ma si affidarono ai cattivi maestri. Il diciottenne, salvo rare eccezioni, non è un lupo solitario. Vuole fidarsi di qualcuno, e magari affidarsi a lui.

Può allora fidarsi di un governo che lo ha gettato nella confusione più totale? Può credere nelle istituzioni quando da queste ha ricevuto soltanto prediche regolarmente smentite subito dopo la loro solenne edittazione? No che non può. E di conseguenza, assieme alla fiducia, rischia di perdere anche quel residuo di disciplina che nasce solo dalla convinzione di uno scopo condiviso. Uno scopo che il governo non riesce nemmeno più a elaborare, tra promesse ondivaghe e reiterati rinvii. Che, come è noto, sono, assieme all’indecisione, i genitori del fallimento. 

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