di Vittorio Emanuele Parsi
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Giovedì 28 Aprile 2022, 00:01

«È legittimo per l’Ucraina colpire il territorio russo e farlo anche con le armi fornite dalla Gran Bretagna». Sono suonate dure e perentorie le parole dell’intervista rilasciata al “Guardian” da James Heappey neppure 48 ore fa. In realtà, il viceministro della Difesa britannico ribadiva un’ovvietà dal punto di vista del diritto internazionale e della stessa Carta dell’Onu (articolo 51): con buona pace dell’avvocato Conte, il diritto all’autodifesa si esercita anche contro le basi da cui parte l’aggressione e in nessun modo il territorio dell’aggressore può essere considerato un “santuario”, tenuto indenne dal diritto alla legittima difesa da parte dell’aggredito. All’argomentazione giuridica, Mosca ha replicato, come sempre, con quella della forza, ritenendosi “autorizzata” a colpire per rappresaglia il territorio della Nato da dove transitano (si noti: non da dove vengono attivate) le armi destinate agli Ucraini. 
Come sempre Putin, e i suoi tanti avvocati nostrani, cercano di far passare una simmetria che non esiste, di mettere sullo stesso piano la logica del diritto e quella della pura violenza, così equiparando di fatto le pretese (inaccettabili) dell’aggressore e quelle (inappuntabili) dell’aggredito.

Le dichiarazioni che provengono da Londra sono sempre più in sintonia con quelle in arrivo da Washington: all’interno del campo transatlantico, la relazione speciale anglosassone si ripropone solida proprio nei momenti di più forte crisi internazionale. Lo è oggi di fronte alla guerra scatenata da Putin nel cuore d’Europa, lo è stato nei confronti della repressione cinese ad Hong Kong e delle minacce rivolte a Taiwan. Il rimarcare la forza del diritto versus il diritto della forza è inteso a far emergere le aporie del discorso putiniano e a rinserrare le fila delle democrazie, a ricordare loro che la difesa dei principi della libertà, della sovranità e del diritto internazionale non si può limitare alle dichiarazioni di principio, ai nobili proclami o ai sermoni.

C’è però chi si domanda se Stati Uniti e Gran Bretagna non aspirino solo a logorare la potenza russa, ma anche la coesione dell’Unione, ovvero auspichino una Russia fiaccata militarmente e un’Europa indebolita politicamente. Personalmente, ritengo che una simile preoccupazione costituisca un clamoroso abbaglio. Anche dopo la Brexit, Londra sa bene che un’Europa continentale coesa è la miglior garanzia affinché la Manica non torni ad essere lo stretto braccio di mare che la separerebbe dalla minaccia di un Continente asservito o sotto scacco e ricatto permanente del dispotismo russo. Alla Casa Bianca non risiede più – e speriamo non risieda mai più – quel Donald Trump che, mentre ricorreva ai maneggi russi per sconfiggere i suoi avversari politici interni, proclamava il suo favore verso nuove “-exit”. Joe Biden è fin troppo conscio che, oltre questa guerra, anche quando le armi taceranno, lo scenario di un confronto pluriennale con i dispotismi russo e cinese è quello più probabile e che per vincere questa nuova sfida epocale – cruciale per salvaguardare la libertà, il bene più prezioso per ogni donna e ogni uomo, il solo attributo esclusivo degli esseri umani – la compattezza di un solido Occidente è decisiva. Un’Europa forte e unita – militarmente, politicamente ed economicamente – è nell’interesse di Washington e Londra, quanto lo è in quello di Bruxelles, Roma, Parigi e Berlino.
Tuttavia, occorre sottolineare che l’esasperazione dei toni può costituire una difficoltà in più per la coesione dei Paesi Ue.

All’ interno di alcuni di questi le opinioni pubbliche appaiono comprensibilmente spaventate, anche grazie alla propaganda terroristica e apocalittica del Cremlino.

Ci sono poi partiti politici e spezzoni di classi dirigenti che hanno avuto rapporti fin troppo stretti con la nomenklatura putiniana, traendone benefici finanziari e non solo. L’esigenza di sottolineare e distinguere tra le pretese dell’aggressore e i diritti dell’aggredito va quindi contemperata con quella dell’opportunità politica di non fornire sponde alla disinformatia putiniana. Al vertice di Ramstein, gli oltre quaranta ministri della Difesa della coalizione che sostiene militarmente l’Ucraina hanno concordato di aumentare quantitativamente e qualitativamente il loro sforzo. È un risultato importante e positivo, ma non illudiamoci che la questione della solidarietà anche militare all’Ucraina sia un risultato acquisito una volta per tutte.

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