di Paolo Balduzzi
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Martedì 4 Agosto 2020, 23:48
L'emergenza Covid ha decisamente ridato vivacità al dibattito sul federalismo. Vivacità che tuttavia si riscontra solo sui giornali – non muovendosi all’apparenza nulla a livello istituzionale – in un dibattito in cui ancora non riesce ad emergere alcuna posizione maggioritaria. Probabilmente anche perché questo stesso dibattito si sviluppa sugli elementi sbagliati. Ma procediamo con ordine. In questi mesi, alcune regioni italiane sembrano avere usato piuttosto bene i propri poteri, per esempio, in termini di tutela della salute pubblica, di organizzazione delle cure, e di limitazione delle libertà personali. Altre regioni, più semplicemente, no. Una categorizzazione che non si risolve certo guardando ai contorni geografici: esempi virtuosi - e meno virtuosi – si sono osservati sia al nord sia al sud del Paese. La delusione più cocente è venuta dalla Lombardia, che si è dimostrata gravemente inadeguata di fronte all’emergenza. D’altro canto, anche il governo centrale non ha sempre brillato per efficienza e tempestività, né per imposizione dei corretti protocolli. Avere a disposizione tanti laboratori diffusi sul territorio ha anche aiutato a sperimentare le soluzioni migliori da applicare poi a livello nazionale. Tuttavia, c’è anche un altro elemento di cui tenere conto e che finora non è sufficientemente emerso. 

Nel dibattito che imperversa su regionalismo sì o regionalismo no, su federalismo differenziato o accentramento del potere, tanto la politica quanto l’accademia hanno perso infatti di vista il ruolo degli enti locali. Lasciamo perdere, per carità di patria, il triste destino delle province; al limite, riflettiamo solo su quanto sia emblematico il fatto che, pur in un periodo in cui tutte le forze politiche erano d’accordo per la loro abolizione, nessuno è stato in grado di farlo davvero. Il punto del regionalismo differenziato è che se di regioni a statuto ordinario ne esistono 15 e sono molto diverse tra loro, allora anche i loro compiti e le loro competenze possono essere differenziate. Perché non notare quindi che di comuni ce ne sono invece poco meno di 8.000, di cui circa il 70% con meno di 5.000 abitanti ma altri, in particolare Roma, sono più grandi addirittura di alcune regioni? Una forma di Stato di questo tipo ha bisogno di un intervento, proprio a partire dal ruolo della sua capitale. A dire il vero, qualche tentativo - bislacco, e più formale che sostanziale - c’è stato negli ultimi vent’anni. Per esempio, la riforma costituzionale del 2001 ha introdotto le città metropolitane, un livello di governo però pensato per integrarsi nel sistema provinciale, non certo regionale.
Oppure, all’apice della stagione federalista italiana e a seguito della legge delega 42/2009 sull’autonomia tributaria degli enti locali, l’emanazione di due decreti attuativi proprio per definire e valorizzare il ruolo di Roma Capitale. Decreti però che hanno di fatto tralasciato contenuti e responsabilità. È evidente: una città come Roma equivale e si relaziona alle altre regioni italiane; lo stesso può dirsi di Milano, sebbene in misura minore, e di altre (poche) città. Ma solo Roma è la capitale del paese. Paradossalmente, proprio per questo motivo Roma viene penalizzata, perché considerata (e usata) dalla politica solo come luogo di istituzioni nazionali, non come centro politico e amministrativo a se stante. Lo osservava ieri molto bene Alessandro Campi su questo giornale: che desolazione la fuga dei leader politici rispetto alla candidatura a sindaco della capitale. Come può un politico, in particolare se di Roma, preferire essere un parlamentare su mille invece che il primo cittadino? E allora forse una delle ragioni di questo distacco è che una città così complessa e grande non ha gli strumenti adatti per risolvere in maniera efficiente i propri problemi. Naturalmente ciò non giustifica l’incuria e le gravi inefficienze dimostrate dalle ultime amministrazioni, incapaci di gestire persino l’esistente, anzi aggravando fino all’inverosimile i suoi problemi. Ciò posto, appare evidente che la medesima cassetta non può contenere gli attrezzi che servono ad amministrare un comune di 500 abitanti e uno di qualche milione, senza contare i flussi quotidiani in entrata e uscita di pendolari e turisti. Spesso si dice che il federalismo corre il pericolo di spaccare il paese; in realtà, è più probabile il contrario: in presenza di forti differenze territoriali ed economiche, è l’eccessiva omogeneizzazione a stimolare tensioni locali. Ma se una regione o un territorio possono minacciare la secessione, lo stesso non può certo dirsi di una città. E allora ecco che in quel caso, più banalmente, sono i politici di primo piano a fuggire dalla sua amministrazione. Dunque, una revisione di questo tipo richiede ben più del tradizionale cacciavite: non basta mettere ordine tra le competenze, bisogna mettere ordine tra i soggetti coinvolti. Se l’obiettivo è di avere uno stato più efficiente valorizzando le differenze, allora è necessaria anche una certa moltiplicazione.
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