L'effetto spot/La comunicazione che la politica deve dare al Paese

L'effetto spot/La comunicazione che la politica deve dare al Paese

di Paolo Graldi
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Martedì 16 Febbraio 2021, 00:07 - Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 00:12

È bastata la parola, lockdown (tutti chiusi a casa), perché partisse una valanga di critiche. Walter Ricciardi, autorevole consulente del ministro Roberto Speranza, l’aveva già detto al Messaggero e poi riproposto ieri in prima serata tv, come rimedio immediato per arginare la pandemia. 


La tesi: il Covid-19, aggravato, reso infido e pericoloso per effetto delle varianti che mutano l’aggressività del virus, ha bisogno di una stretta severa. Altri esperti d’accordo con il professore: non è piaciuto che fosse lui a fare la proposta e non l’autorità politica. Questione di stile, non di sostanza. 


Su un altro versante già s’erano levati gli scudi dei gestori delle piste di sci, degli albergatori e ristoratori del mondo bianco, richiusi mentre speravano di poter riaprire, vittime di uno sbaffo nella comunicazione: lo stop a fermare una macchina già in corsa, dicono. «Niente ristori, più o meno immaginari, servono risarcimenti, a piè di lista», ora è il grido di guerra che s’è levato dall’arco alpino, accolto e rilanciato da voci leghiste. 
Il governo, si dice a Palazzo Chigi, sapeva e condivideva il fermi tutti ma il cambio della guardia nell’Esecutivo ha innescato un freno e fatto scattare la trappola. L’insieme dei fatti di queste ore avrà effetti profondi nei primi passi di Draghi e della sua compagine. 


È la comunicazione che si mette al centro ed è la comunicazione che lo staff non ancora nominato del presidente dovrà cambiare, riportandola a una dimensione di solenne sobrietà. La pandemia, nelle sue diverse ondate, ha sollevato entusiasmi eccessivi sulla ribalta delle popolarità a buon mercato e prodotto una disponibilità al dibattito, quando non al battibecco, tra esperti. 
Il loro ruolo doveva essere solo quello di aiutarci a capire. Metterci in grado di conoscere questo mostro ignoto chiamato Covid dal quale dovevamo imparare a guardarci e che dobbiamo temere in casa e fuori, al lavoro e a scuola, ovunque. 


E, invece, purtroppo, il virus dell’apparire e del piacere, ammaliante e velenoso, si è sommato a quello da combattere e il protagonismo di alcuni ha trasformato la cattedra in piccolo palcoscenico. 
Comunicare sembra facile.

Non lo è. Il messaggio deve viaggiare come un dardo, non deve subire interferenze, intrusioni. In quel caso si deforma, arriva storpiato e chi lo ricevere lo legge male, lo accoglie senza capire, lo subisce anziché utilizzarlo. 


È accaduto che il Covid Theatre, complici gli abbracci interessati delle telecamere, si è aperto a qualsiasi copione e troppi si sono sentiti autorizzati a discettare sulla pandemia da virologi, epidemiologi, infettivologi ma anche da veterinari. Così si è arrivati ai proclami. 
Chi ha deciso che il virus è una febbricola, chi quasi sempre letale, chi ormai sconfitto e chi in attesa di un’altra ondata da migliaia di morti. 


Lo stile appena archiviato ha sporcato la scena. Non lo diremmo adesso se non lo avessimo sostenuto anche a suo tempo. Ad una materia che penetra come una lama nel sociale, nelle varie fasi si è aggiunta la sorpresa dei Dpcm notturni che ti cambiano la vita all’indomani, delle litanie sui comportamenti e i sacrifici, delle omelie sui doveri che si contrapponevano ai diritti, molto spesso disattesi. La materia è stata maneggiata con poca cura e troppo ardimento declamatorio. È diventata fatalmente divisiva e non coinvolgente. 


S’impone adesso un cambio di passo. Il premier Draghi è uomo di poche parole. Sa usare benissimo i fatti. 
E questo intende fare imprimendo alla comunicazione del governo un andamento più legato alla ufficialità e con poca simpatia per il retroscena, il pettegolezzo, l’indiscrezione. Cercherà la sostanza nella forma. E anche nei densi silenzi che diventano luoghi del pensiero e non apnee. 
Il Paese non vuole più rimanere con il fiato sospeso.

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