Le scelte da fare/L’inefficacia del lockdown se non ci sono altre misure

Le scelte da fare/L’inefficacia del lockdown se non ci sono altre misure

di Luca Ricolfi
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Lunedì 15 Febbraio 2021, 23:51 - Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 00:12

La politica sanitaria del governo Conte bis «ha causato decine di migliaia di morti e affossato l’economia». Potrebbe essere un riassunto, rozzo e semplicistico, del mio ultimo libro (La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia). E invece no. Ora a riconoscere questi due tristissimi fatti – le vite umane perdute, i punti di Pil bruciati – è nientemeno che Walter Ricciardi, il consulente principe del ministro della Salute, Roberto Speranza, che ci spiega che «nel precedente governo» il ministro stesso «trovava un muro», perché a prevalere era «la linea di chi voleva convivere con il virus».

 
Nella sostanza, un atto di accusa gravissimo verso il ministro della Salute. Se è vero che, fin da ottobre, il consulente lo avvertiva della pericolosità della linea sanitaria adottata, e se è vero che il ministro ne condivideva analisi e suggerimenti, allora come ha fatto, il ministro stesso, ad avallare una linea che avrebbe «causato decine di migliaia di morti e affossato l’economia»? 


Volendo lasciar da parte il passato (peraltro greve di responsabilità, di cui mi auguro che a un certo punto qualcuno si faccia carico), ora che Draghi sta per enunciare il suo programma ci piacerebbe che venisse finalmente detta una parola chiara sulla politica sanitaria svolta finora e su quella futura.

Perché, arrivati a questo punto, noi italiani siamo davanti a un paradosso davvero singolare. Da una parte, un ministro della Sanità che viene confermato non si sa se per proseguire o per capovolgere la disastrosa politica sanitaria adottata fin qui. Dall’altra, un coro di critiche diametralmente opposte: per buona parte della destra il disastro è stato chiudere troppo, per Ricciardi e per la maggior parte degli studiosi indipendenti il disastro – se mai – è stato chiudere troppo tardi e troppo poco.


Ciò detto, il j’accuse retrospettivo di Ricciardi è comunque più che mai opportuno e saggio. Aspettavamo da mesi un discorso del genere, chiaro e coraggioso, che mettesse finalmente i cittadini di fronte alla grave situazione che abbiamo davanti: il piano di vaccinazione che ritarda, e l’incubo delle varianti emergenti. 
Ma è sui modi che abbiamo per uscirne che dobbiamo interrogarci. Ricciardi propone l’abbandono del protocollo occidentale (che persegue la mitigazione dell’epidemia) a favore del protocollo orientale e dell’emisfero Sud (che persegue la soppressione del virus). Un cambio di passo davvero decisivo, una clamorosa inversione di rotta, cui personalmente non posso che plaudire, come non possono che plaudire quanti, come gli studiosi di Lettera 150, lo hanno invocato fin dalla primavera scorsa. 


I cardini del passaggio, secondo Ricciardi, dovrebbero essere tre: «lockdown breve e mirato, tornare a testare e tracciare, vaccinare a tutto spiano». Ed è qui la domanda nevralgica: è questa la sostanza del protocollo dei Paesi lontani, dal Giappone alla Corea del Sud, dall’Australia alla Nuova Zelanda, che ce l’hanno fatta a ridurre quasi a zero la circolazione del virus? (Lascio volutamente fuori dalla lista la Cina, che Ricciardi evoca ma, in quanto dittatura, è un modello improponibile in un Paese democratico).
A me sembra che il modello dei Paesi lontani sia molto più complesso. Intanto, ovviamente, i vaccini non potevano far parte delle loro armi di difesa; e poi, non esiste una ricetta unica di quegli Stati; infine, il lockdown assai raramente costituisce l’ingrediente fondamentale. 


Il lockdown può anche diventare assolutamente necessario (come lo è oggi in Italia), ma non è la via maestra per la soppressione del virus. È il primo e doveroso passo, a cui però vanno affiancate altre misure, senza le quali si rischia un ulteriore fallimento. 


Le ricette dei Paesi lontani hanno due ingredienti basilari comuni: il controllo rigoroso delle frontiere da parte del governo, e il rispetto scrupoloso delle regole di distanziamento e autoprotezione da parte dei cittadini, entrambe condizioni che in Italia non si sono mai verificate.

 
E hanno poi ingredienti specifici, altrettanto basilari: il tracciamento elettronico (anche a scapito della privacy), l’uso sistematico e generalizzato delle mascherine, la stretta sorveglianza sul rispetto della quarantena, i tamponi di massa, e infine, sì, i lockdown duri e circoscritti. Ogni Paese ha scelto un mix diverso dei vari ingredienti, ma il punto è che tutti hanno messo in campo più di un tipo di misura, perché una o due misure soltanto non bastano.
E noi? Facciamoci qualche domanda.

Noi saremmo disposti a rinunciare alla privacy e lasciarci tracciare, rispettare rigorosamente le regole, indossare sempre le mascherine FFP2, sugli autobus, nei negozi, per strada? Saremmo disposti a controllare le frontiere (e chiuderle addirittura, in alcuni casi), nei modi in cui avviene per esempio in Giappone, dove i viaggiatori che arrivano in aeroporto vengono sottoposti a test in entrata e in uscita, e il governo pretende di sorvegliare la quarantena con il Gps?


Non è un caso che noi europei, noi occidentali, abbiamo perseguito il modello del mitigare e non quello del sopprimere, ovvero, per dirla con una formula che ormai ci è familiare: noi europei abbiamo scelto la filosofia del “convivere col virus”. Filosofia che ora, di fronte alle varianti pericolose che ci invadono, ci rendiamo conto che non può più funzionare.


Se ora volessimo davvero cambiare modello, dovremmo smettere i panni europei, la mentalità occidentale e, non dico diventare orientali, ma almeno provarci.


Quel che voglio dire è che un lockdown duro ora non basta. Ben venga, anche se – non mi stancherò mai di dirlo – il lockdown non è la soluzione, bensì semplicemente il certificato di fallimento della politica sanitaria. Ben venga, perché arrivati a questo punto, non ha alternative: ma deve più che mai, ora, accompagnarsi all’attuazione di molte, se non tutte, le altre misure di contenimento e prevenzione. Soprattutto perché la campagna vaccinale non potrà avere effetti apprezzabili prima dell’estate, e più che mai ove tale campagna dovesse subire ulteriori ritardi; e perché intanto le varianti ad alta trasmissibilità accelerano la circolazione del virus.

In questa situazione, un inasprimento delle misure attuali non accompagnato da tutto il resto non basterà certo a sradicare il virus. 
Questo ci aspettiamo che il nuovo governo ci sappia indicare, con chiarezza e coraggio. Perché la delusione più grande sarebbe ascoltare l’ennesima ripetizione della promessa di «fare tutti gli sforzi per accelerare la campagna vaccinale», magari accompagnata da qualche concessione alla linea della prudenza, ma senza un chiaro e dettagliato cronoprogramma su tutto quel che ancora non si è fatto, o si è appena iniziato a fare.


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