Lezione asiatica/Quali errori abbiamo commesso contro il virus

Lezione asiatica/Quali errori abbiamo commesso contro il virus

di Francesco Grillo
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Lunedì 8 Marzo 2021, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 23:16

Chi sta vincendo questa strana “terza guerra mondiale”? È questa la domanda che, sempre più spesso, circola nelle videoconferenze che uniscono università americane, asiatiche ed europee. E la domanda si accompagna allo stupore di osservare che è la parte di mondo dotata dei migliori sistemi sanitari ad aver perso il treno che le grandi crisi inevitabilmente lanciano verso il futuro. 


La Grande Pandemia è stata, infatti, paragonata ai conflitti che segnarono il secolo scorso. Non solo per i due milioni e mezzo di vite spezzate. Ma perché essa sta modificando equilibri politici ed economici che per decenni abbiamo, pigramente, ritenuto scontati. 


La scorsa settimana in un incontro al Politecnico di Milano sono emerse evidenze nette. La parte “storica” dell’Occidente – intesa come la somma dei quindici Paesi che aderivano all’Unione prima dell’allargamento ad Est ed il Nord America – con il 10% della popolazione mondiale, conta quasi la metà dei decessi per Covid-19. Ciò nonostante il fatto che questa parte del mondo assorbe due terzi della spesa sanitaria pubblica globale e ospiti 33 delle prime 35 aziende farmaceutiche. 


Al contrario, è la parte dell’Asia che condivide l’Oceano Pacifico che è già – da diversi mesi – entrata nella mitica età post Covid che noi stiamo aspettando. 

Si tratta dei quindici Paesi che, da qualche mese, hanno siglato l’accordo per formare l’area di libero scambio più grande del mondo - il Partenariato Economico Globale Regionale che si estende dalla Manciuria fino ad Auckland, da Tokyo fino a Singapore - contano un terzo della popolazione e del Pil del mondo, ma meno decessi di quanti non ne registri la sola Spagna. In termini di efficienza per euro speso in sanità, sembra che il peggiore dei Paesi del sud est asiatico abbia fatto decine di volte meglio del migliore dei Paesi occidentali. 


Infine, è lo stesso Occidente che – sulla vicenda dei vaccini – sembra dividersi nuovamente in due: Stati Uniti e Regno Unito stanno recuperando grazie ad un formidabile sforzo scientifico ed un grande pragmatismo; l’Unione Europea – che aveva ed ha il miglior sistema di welfare del pianeta, come ricorda spesso Angela Merkel – rimane nella posizione più scomoda. Questi i numeri ed essi si riflettono in una divaricazione impressionante di risposta tecnologica ed economica alla crisi: secondo le ultime previsioni della Commissione Europea, se il resto del mondo torna ai livelli di produzione del 2019 alla fine di quest’anno, l’Unione li raggiungerà con almeno un anno di ritardo.


È, allora, fondamentale capire cosa abbia prodotto un risultato che può cambiare la storia, anche perché crisi come quelle che stiamo vivendo rischiano di diventare endemiche. Un risultato che non si può spiegare giustificandosi con fattori demografici (il Giappone è il Paese più vecchio del mondo) e neppure immaginando che la democrazia sia inesorabilmente inefficiente (tra i “vincitori” ci sono anche l’Australia, la Nuova Zelanda e la Corea del Sud).

Laddove, ci sono differenze importanti anche all’interno della stessa Unione Europea e, ad esempio, tra Germania e Italia.


Tre i fattori che appaiono determinanti per resistere alle crisi che stanno orientando il secolo nuovo. E a ciascuno di essi corrisponde una lezione che l’Europa può forse imparare guardando verso Est. 
Innanzitutto, una grande capacità di utilizzare i dati che le tecnologie rendono disponibili in quantità e a costi mai visti prima. Una delle scelte che oggi paghiamo fu quella fatta all’inizio della pandemia di sviluppare un’applicazione nuova, per ciascuno dei 27 Stati e che partisse dalla premessa di garantire l’inviolabilità di un totem chiamato privacy. 


In Paesi democratici come la Corea del Sud (o anche in Israele) si sono accorti, invece, che il diritto alla riservatezza dei propri dati personali (che, da tempo, i cittadini europei hanno, del resto, regalato a piattaforme che europee non sono) non vale di più del diritto alla salute o alla libertà di movimento: diritti che – nel caso di emergenze e solo per il tempo strettamente necessario – possono essere difese consentendo al proprio Governo di tracciare con precisione i contagi.
In secondo luogo, la flessibilità dei sistemi produttivi e degli Stati per reagire immediatamente. Lo dimostra il piano vaccinale e, in parte, anche la risposta fiscale che, pure, abbiamo celebrato come momento storico nel processo di crescita dell’Unione. Sfide che si giocano in velocità, di forza e precisione, più che attraverso ricerche di faticosi consensi unanimi. Qui o l’Europa sceglie la cessione definitiva di poteri nazionali (ad esempio, quando scatta un’emergenza sanitaria) o rimane a mollo in mezzo al guado che è la posizione peggiore per chi deve resistere ad una piena. 


Infine, l’Asia sembra premiata da un forte senso di comunità che noi abbiamo smarrito nella sbornia di individualismo che può sfuggire di mano proprio grazie a quelle stesse tecnologie che, se usate bene, possono far vincere queste guerre. In Nuova Zelanda o in Giappone alle emergenze ci si prepara nel tempo e intere città, ospedali e scuole sanno come cambiare forma per rispondere agli shock con il contributo di tutti. La retorica di “stare a casa” è inevitabile in società vulnerabili ma la resilienza passa attraverso progetti che mobilitino tutti e l’idea di un servizio civile obbligatorio deve entrare nella riflessione di chi vuole salvare il nostro “stile di vita”.


Il nostro vero nemico è, però, la rassegnazione strisciante che ci sta convincendo di essere inesorabilmente destinati alla perdita di rilevanza. Ciò si accompagna al classico complesso di superiorità di chi sente di essere capitato dalla parte sbagliata di una storia che dominava. Non è vero che siamo condannati all’obsolescenza; per salvarci, però, dobbiamo ricominciare a studiare ammettendo che a dover essere riformati sono gli stessi strumenti intellettuali che usavamo per leggere una realtà complessa.


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