I danni al Paese/ Le chiusure che il governo deve spiegare in Parlamento

I danni al Paese/ Le chiusure che il governo deve spiegare in Parlamento

di Carlo Nordio
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Venerdì 7 Agosto 2020, 00:41 - Ultimo aggiornamento: 10:20

La desecretazione dei verbali del Comitato Tecnico Scientifico, con le relative misure proposte al Governo per affrontare l’emergenza del Coronavirus quando stava diffondendosi nel Paese, solleva una serie di problemi sui quali, alla fine, dovrà pur pronunciarsi il Parlamento. Questo perché l’atteggiamento allora tenuto dall’Esecutivo risulta oggi, a dir poco, singolare. Partiamo dall’inizio, seguendo le date riportate dalle agenzie.

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Fase 1. Il 28 febbraio il Cts comunica che Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna “presentano una situazione epidemiologica complessa tale da richiedere la prosecuzione di tutte le misure di contenimento adottate, opportunamente riviste”. In pratica, si chiedono misure più restrittive per le tre Regioni dove il virus si sta maggiormente diffondendo. Si noti, incidentalmente, che mentre la Lombardia era stata assai restìa a imporre le rigorose cautele, il Veneto aveva già da settimane avvertito il pericolo, proponendo controlli più attenti sui viaggiatori provenienti dall’Est e in particolare dalla Cina. 

Come risultato, alcuni esponenti della maggioranza avevano accusato il governatore Zaia di allarmismo e discriminazione razziale. 

Fase 2. Lo stesso Cts, il 7 marzo, individua “le zone cui applicare le misure di contenimento più rigorose rispetto a quelle da applicarsi nell’intero territorio nazionale”: esse sono l’intera Lombardia, più altre 12 provincie del Veneto, dell’Emilia Romagna e del Piemonte. In pratica, si consiglia l’adozione di misure differenziate per territori. 

Fase 3. Il 9 marzo viene disposto il lockdown dell’Italia intera. Con la conseguenza che, per varie settimane, sessanta milioni di abitanti sono più o meno messi agli arresti domiciliari: sono dure limitazioni dei fondamentali diritti costituzionali adottate con semplici decreti amministrativi, senza un dibattito e tantomeno una risoluzione parlamentare. Circostanza giustamente lamentata dalla Presidente del Senato, da autorevoli costituzionalisti e, sin dal primo momento, anche da noi. 

Ora le circostanze da chiarire sono essenzialmente due. Primo, perché il Governo abbia atteso dieci giorni, dopo il “warning” del Cts del 28 febbraio, per adottare i provvedimenti sollecitati. E secondo, perché dopo questa lunga e segreta meditazione, sia andato, come si dice in giuridichese, “ultra petita”, estendendo a tutto il territorio nazionale quelle spietate misure che il Cts avrebbe voluto limitare alle Regioni più colpite. 

L’ipotesi più maligna è che all’inizio, consapevole delle conseguenze economiche di un lockdown della Lombardia, il Governo sia stato condizionato da pressioni esercitate dai settori produttivi locali, e che successivamente abbia adottato una sorta di “par condicio” generale, chiudendoli tutti per non danneggiarne solo alcuni. L’ipotesi meno grave è che, entrato nel panico per la diffusione del contagio, sia ricorso a quei provvedimenti capestro senza badare alle differenze di pericolo che pur erano state evidenziate dallo stesso Cts. Insomma, che abbia chiuso tutto e in fretta, per non assumersi la responsabilità di valutare le situazioni caso per caso. Nella prima ipotesi, avrebbe peccato di acquiescenza codarda o di colpevole connivenza. Nella seconda, quantomeno di avventatezza superficiale. Il tutto aggravato dal fatto che l’intero percorso seguito è rimasto, fino a oggi, segreto. 

Chi ne è uscito più malconcio è stato, ovviamente, l’intero Mezzogiorno. Noi non sappiamo se, mantenendo aperte le attività, le Regioni del Sud avrebbero subito il supplizio di quelle del Nord. Ma sappiamo che hanno subito un danno immenso, materiale, sociale e di immagine a seguito di una decisione che lo stesso Cts - che non può certo esser accusato di incauto lassismo - non aveva richiesto e nemmeno consigliato. Una decisione che avrebbe potuto esser sostituita dal semplice obbligo di tutte le misure cautelative che si sono poi rivelate efficaci anche senza la paralisi delle attività. E’ infatti opportuno ricordare che alla data dell’8 marzo la gran parte dei contagi che avrebbero provocato la devastazione del Nord era già avvenuta o era in atto, che il Meridione era complessivamente quasi immune dal flagello, e che le misure per impedirne la diffusione erano ormai di comune conoscenza sì da poter esser adottate senza compromettere l’economia locale. 

Tutto questo, ripetiamo, non costituisce di per sé un atto di accusa del Governo. Ma costituisce un doveroso motivo di discussione e di approfondimento per comprendere le ragioni di tanto segreto sulle misure proposte, di tanto ritardo nell’adottarle dove servivano subito, e di tanta fretta nell’estenderle anche dove potevano essere sostituite da altre meno gravose. 

E’ una risposta che può esser data solo in Parlamento a tutto il Paese, e soprattutto alle Regioni del Sud che ne hanno subito le conseguenze più significative. 
 

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