di Paolo Balduzzi
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Martedì 5 Novembre 2019, 00:37
Se volessimo un esempio da libro di scuola per provare che a mettere in crisi le economie nazionali è l’incapacità dei legislatori di gestire i problemi più delicati, la vicenda ArcelorMittal fornirebbe tutto il materiale necessario. L’annunciato passo indietro del gruppo franco-indiano dal contratto per l’ex-Ilva di Taranto è arrivato. Non certo un fulmine a ciel sereno, visto le premesse: ma resta la netta sensazione che abbia colto di sorpresa il governo, che forse tutto si aspettava in questo periodo meno di doversi occupare anche di questa patata bollente. 
La vicenda è nota e raccontata puntualmente dal Messaggero. Le cause scatenanti di questo disastro all’italiana sono principalmente state, da un lato l’eliminazione dello scudo legale da parte del legislatore, dall’altro la prospettiva di chiusura dell’Altoforno 2 da parte del Tribunale di Taranto il prossimo 13 di dicembre. In altre parole, di fronte all’incertezza politica e giuridica del quadro normativo - che per ArcelorMittal è in realtà certezza economica assoluta che il contratto non potrà essere rispettato - il gruppo ha deciso di fare un passo indietro gettando nel caos il governo e, ancor più gravemente, un paese, una regione e una città che ben altre aspettative riponevano in questa operazione.
Altro che debacle elettorale in Umbria: il governo dovrà darsi ora una vera mossa, senza ridurre la sua azione agli unici obiettivi di tirare a campare, di sperare che Salvini si stufi di stare sui social a fare opposizione e di non perdere le prossime elezioni regionali (si votasse domani, sarebbe un bagno di sangue per la maggioranza). Incartato sulla discussione se faccia più male un aumento dell’Iva o di altre imposte per racimolare qualche miliardo, quando forse basterebbe fare una seria revisione della sconti fiscali e una adeguata lotta all’evasione fiscale per recuperarne almeno una ventina, il Palazzo si è dimenticato che l’appeal di un Paese non si può limitare a una questione tributaria. I mali del nostro Paese sono noti da tempo ma forse parlare di imposte rende la discussione più sexy, come se mettere le mani nelle tasche dei cittadini fosse l’unico modo per impoverire una nazione. Non lo è, e non lo è perché se usati bene, i proventi tributari finanziano investimenti, welfare, corretti sgravi fiscali e altri importanti interventi che possono rilanciare l’economia.
Che bello sarebbe se ci fosse più cultura del diritto nell’economia e più cultura dell’economia nel diritto. Da un lato, la politica non sembra porre adeguata attenzione alle conseguenze, appunto, economiche che lo stato catastrofico della giustizia civile italiana, sulla cui struttura pesa anche una certa connivenza tra la politica stessa e le professioni legali, ha sulla certezza del diritto e su chi voglia fare impresa nel nostro paese. Dall’altro, la giustizia stessa, dal singolo magistrato del Tribunale di Taranto al più alto giudice costituzionale, ancora non ha gli strumenti necessari a capire come i tempi dell’economia non sempre possano facilmente adattarsi alla burocrazia del diritto.
Certo, in molti paladini dell’italianità brinderanno allo straniero che se ne va. E molti scettici diranno che si tratta di una scusa per evitare ad ArcelorMittal di assumersi le proprie responsabilità. L’argomento, per la verità, non sembra molto forte. L’industria siderurgica in Italia è una delle più importanti, la produzione nazionale è la seconda in Europa e la decima nel mondo, sta recuperando dopo gli anni della crisi ed è in crescita. Ma anche sposando la posizione scettica, sarebbe a questo punto ancora più grave la responsabilità del legislatore, che ha sostanzialmente messo nella mani dell’azienda un buon motivo per lasciare il campo.
Ora, la risposta del governo non mancherà. E forse anche il gruppo franco-indiano rivedrà al sua posizione. Non è una certezza dettata dai fatti, bensì è una speranza dettata dalla logica economica e politica. Si spera comunque che non ci si limiti a mettere solo una pezza: la gestione di questa vicenda, finora, ha infatti mancato sia di risolvere la questione ambientale sia di affrontare la questione industriale. Una bomba che potrebbe avere conseguenze pesanti sui consumi, sulle esportazioni, sul reddito nazionale e sulle finanze del Paese.
Una bomba innescata, inutile negarlo, con responsabilità principale del Movimento 5 Stelle - che su iniziativa di alcuni senatori è riuscito a stralciare la reintroduzione dello scudo legale - e di tutta la maggioranza a cominciare dal Pd che su questo decreto ha espresso fiducia al governo. Piacerebbe a molti riuscire a ridurre la morale di questa storia all’eterna lotta tra potere economico e potere politico, con il primo che anti democraticamente vuole sostituire le ragioni del reddito a quelle dell’elettore. Ma la realtà, se una morale si vuole cercare, è che non è mai il potere economico in sé a soggiogare quello politico, bensì il potere forte a soggiogare quello debole. 
Non è certo responsabilità di un’azienda essere potere forte; al contrario, è responsabilità di uno Stato quella di ridursi a potere debole. I governi devono attrezzarsi, sempre di più, per essere i detentori del potere forte in quanto legittimo e tutelante dei cittadini. E possono farlo acquisendo competenza, certezza dell’azione, e consenso elettorale. Cosa resterà di questo potere, al governo in carica, ce lo diranno le prossime ore e le prossime settimane.
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