di Mario Ajello
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Mercoledì 2 Gennaio 2019, 00:00
Un discorso tutt’altro che neutro. Un controcanto. Un elogio politico-culturale della bontà - l’etichetta buonista non piace al presidente - ma puntuto nei confronti dei bersagli, i giallo-verdi, che Sergio Mattarella ha individuato. Scegliendo anche il campo di gioco, che è il loro, quello di Salvini e di Di Maio.
Nella piazza virtuale dei social, con grande successo di pubblico e critica, è sceso dunque il Capo dello Stato e lo ha fatto dal luogo - il Colle - e dal format - quello del discorso di fine d’anno - che hanno sempre custodito la tradizione. Stavolta, Mattarella ha innovato il mezzo e insieme ha rivoluzionato la scena e il senso di questo appuntamento rituale. 
La sedia al centro dello studio, e non come sempre il Capo dello Stato dietro la sua scrivania. Il che significa il Quirinale come agorà, e non come luogo verticale, e il presidente al centro: come se fosse in mezzo agli italiani da italiano come gli altri. 

Ma non è stato ecumenico Mattarella. E non sarà piaciuto a tutti. Il Presidente ha avvertito che la politica di governo sta riscrivendo la tavola dei valori nazionali - il cattivismo al posto della bontà, o la sicurezza come esibizione di muscoli e invece no: «La vera sicurezza è la convivenza» - e se questa è una rivoluzione culturale occorre un contrappunto dettagliato.
Ha voluto abbracciare, si pensi al saluto ai 5 milioni di immigrati, tutto ciò che viene emarginato nella retorica dominante. Ha fatto dell’inclusività, basti pensare al quadro dei bambini autistici di Verona al suo fianco, il fulcro della sua contro-narrazione. Che anche per la scelta del mezzo, non solo la tivvù ma appunto anche i social, è sembrata per certi aspetti semplificata, come se gli schieramenti in campo fossero due, rigidissimi: chi per la bontà e chi no, senza sfumature e sovrapposizioni, senza dubbi e incertezze. 

Nel bilancino presidenziale, le parole più affilate sono state rivolte contro la Lega (l’europeismo e gli affondi sulle autonomie oltre che sulla sicurezza e sulla rivendicazione della bontà molto in linea con la polemica delle gerarchie cattoliche anti-Salvini) piuttosto che verso i 5 stelle. Ha citato la Repubblica ideale di Felicizia («di cui i bambini di Torino mi hanno dato la cittadinanza onoraria»), ossia quella in cui l’amicizia è la strada per la felicità. E ha tracciato di fatto una Repubblica di Platone solidale. Così ha abbracciato quella parte d’Italia, politicamente minoritaria secondo i sondaggi, che si riconosce nell’inclusività come principio basilare ma questa Italia non include quelli che, vuoi per paura, vuoi per convinzioni opposte, vuoi per voglia di provare qualcosa di diverso, sembrano ormai slegati, se non ostili, all’Italia del cattolicesimo popolare e della sua ridefinizione progressista. La cultura orgogliosamente rilanciata da Mattarella oggi non può più dirsi ecumenica. Ma non perché chi non la coltivi sia cattivo: semmai la considera forse inefficiente rispetto ai nuovi problemi della società, alle nuove paure e ai nuovi bisogni dopo gli eccessi di multi-culturalismo e ai disastri dell’integrazione mal gestita. 

<HS9>L’Italia che questo governo non rappresenta e che in questo governo non si rispecchia è l’”altra” Italia cui Mattarella si rivolge. O almeno quella che sentiva il bisogno di un messaggio così. La sinistra è un ectoplasma, s’è persa dietro chiacchiere e velleità, s’è liquefatta nella mini piazza di protesta davanti al Parlamento contro la legge di bilancio, e non avendo una ricetta si accoda invece - contro quello che Salvini chiama, auto-intestandoselo, il «nuovo buon senso» - al buon senso di Mattarella. In altri tempi la destra berlusconiana avrebbe visto in questa situazione un’anomalia, e un’invasione di campo da parte del Colle, ma ora il mood è un altro perché il vecchio arco costituzionale che va dalla sinistra a Forza Italia nel suo spaesamento trova unità e identità nelle parole di Mattarella sui giallo-verdi. Facendo del presidente social il garante dell’Italia della bontà, cioè dell’Italia dell’opposizione. Anche se queste due immagini, proprio per evitare semplificazioni, non andrebbero sovrapposte. 
<HS9>Insomma non c’è la totalità dell’Italia nel discorso forte e innovativo del presidente. Che - verrebbe da dire, con una vecchia battuta - trasuda buonismo da tutti gli artigli.

Se i giallo-verdi sono popolari e forti presso certe fasce sociali e di opinione, Mattarella individua insomma un altro tipo di popolo e sembra volergli prestargli quella voce che al momento sembra flebile, confusa e incapace sia per stanchezza, sia per incapacità di auto-rappresentarsi, sia per deficit di innovazione e di visione. In sostanza il presidente, in nome del «rispetto» e del «rifiuto dell’astio, dell’insulto, dell’intolleranza», fa l’elogio del politicamente corretto e in questo il suo discorso di fine d’anno ricalca quanto egli ha detto il 26 luglio dello scorso anno, citando Alessandro Manzoni: «Il buon senso c’era ma stava nascosto per paura del senso comune». Quello corrente al Colle non piace affatto. E se nel suo discorso Mattarella avesse voluto essere ancora più drastico, dopo il Manzoni dell’altra volta avrebbe potuto citare le parole di Edmund Burke nelle «Riflessioni sulla rivoluzione francese» (1790): «Questi signori trafficano in rigenerazione. Ma, non importa a che prezzo, io offrirei sempre malvolentieri le mie rigide fibre alla loro causa rigenerativa». Qui in Italia però - e ci si passi il gioco di parole - il problema è che non si capisce più, tra tradizione, rivoluzione e vera o finta rigenerazione, quale sia la direzione. 
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