di Maria Latella
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Giovedì 7 Novembre 2019, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 08:03
Si può decidere di non volere un figlio prima che questo nasca. Si chiama aborto. Si può farlo nascere già sapendo di non poterlo tenere. Lo si lascia adottare da altri. Ma quali parole scegliere, come raccontare la decisione di chi, volendo a tutti i costi diventare genitore, anche a costo di sottoporsi alla difficile fecondazione assistita, una volta che il figlio è nato lo lascia? 

E resta con i medici e gli infermieri di un ospedale. Lo lascia perché il bambino è a rischio, potrebbe morire e comunque ha bisogno di tali cure, di un amore così totale, di un sacrificio che loro, i genitori, no, non si sentono di poter sostenere

C’era un’antica, pudica espressione, che marchiava i figli nati da relazioni clandestine. Nei romanzi rosa erano “i figli dell’amore”. Come possiamo chiamare ora i bambini prima voluti a tutti i costi e poi accantonati perché non adeguati a quell’ “idea” di prosecuzione di sé che i genitori perseguivano? Figli usa e getta?

A Roma la “ruota degli esposti” è ancora là, in borgo Santo Spirito. L’aveva imposta papa Innocenzo III per evitare ai bambini non voluti la triste fine che allora spesso li attendeva: finire annegati nel Tevere.
Di figli abbandonati o peggio eliminati sono lastricate le leggende e le cronache anche recenti, dalla primitiva selezione “eugenetica” imposta a Sparta sui neonato deformi (anche se oggi si mette in dubbio la fondatezza di quanto generazioni di scolari hanno appreso sui libri di storia delle elementari) fino ai bimbi lasciati ancora oggi dentro i cassonetti.

Sulla lacerazione di una madre che decide di abbandonare il figlio, pensando che avrà una vita migliore lontano da lei, esiste una vasta letteratura. Invece quel che sta succedendo a Giovannino, nato quattro mesi fa a Torino, nato malato di una malattia rara, l’ittiosi Arlecchino, un male che attacca la pelle rendendola fragilissima, è qualcosa di nuovo e almeno in apparenza riflette quello che molti di noi sono diventati. Consumatori. Consumatori insicuri, provvisti di una sola certezza: sapere di non essere capaci di un sacrificio che non ricompensi il nostro ego.
La malattia di Giovannino impone un sacrificio enorme a chi intende accoglierlo. Un sacrificio senza neppure una garanzia di successo: non si sopravvive a lungo con l’ittiosi Arlecchino. 

Giovannino da quattro mesi vive, curato dall’affetto dell’ospedale Sant’Anna di Torino, ma i suoi genitori non hanno avuto la forza, se non della speranza, almeno dell’amore.

Non conosciamo quali tempeste emotive stiano vivendo, o se l’abbiano anestetizzate, e come. Facile dire, come sempre ci ricordano i pedagogisti, che i figli non sono un prolungamento della nostra sfera di egoità. Facile dirlo, meno facile farlo comprendere nell’era del narcisismo diffuso, dell’ego idolatrato. Kirkegaard osservava che la porta della felicità si apre solo verso l’esterno. 

I tanti che stanno telefonando allo ospedale Sant’Anna per accogliere Giovannino lo sanno. I suoi genitori no. La porta l’hanno chiusa e forse anche il cuore.
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