di Loris Zanatta
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Venerdì 23 Agosto 2019, 00:12
Piaccia o no, nasca o meno, il governo rosso-giallo non ha motivo di causare scandalo: nel nostro sistema parlamentare, non sarebbe meno legittimo di quello giallo-verde. Fin qui, siamo ai fondamentali: meglio ricordarli, in mezzo a tanto analfabetismo costituzionale. Dopodiché, è vero che la politica italiana non è granché brava a farsi capire; figuriamoci a farsi amare. L’asse politico del nuovo governo sarebbe il Pd, il grande sconfitto delle ultime elezioni politiche, l’appestato che tutti prendevano di mira; un partito dai mille volti, ora riformista ora movimentista, ora papalino ora liberale, ora Zingaretti, ora Renzi, ora Calenda; un caleidoscopio, da cui aspettarsi tutto; ma anche il suo contrario. Sua “spalla”, mesta e spaurita, sgonfia e ferita, perciò imprevedibile e temibile, sarebbero gli ex vincitori: i Cinquestelle, coloro che più l’avevano deriso e bastonato: così va il mondo, così gira la ruota. 

Una “spalla” ingombrante, col suo grande esercito di parlamentari senza più bussola né bandiere, di cui tutti sappiamo che rimarrebbe una ben più sparuta brigata qualora si votasse. Fuori dai giochi, attonita alla finestra e debole in Parlamento ma col vento virtualmente in poppa nel Paese e nei sondaggi, rimarrebbe la Lega. Che però, con le mosse sbagliate di Salvini, si è messa in fuori gioco da sola.

Tutto ciò suona un po’ bizzarro e molto complesso: sarebbe dura da spiegare a un marziano piovuto sulla terra. Ma noi ci siamo abituati, ci sembra normale, quasi ci piace danzare sull’orlo del burrone. E poi ci sono buone ragioni: la “manovra” alle porte, l’elezione del capo dello Stato poco più in là, l’Europa che guarda, lo spread, la recessione; l’“interesse del Paese” reclama un governo, si dice, sconsiglia la via crucis elettorale. Ma che governo? In questo siamo imbattibili: di scopo, di programma, di legislatura? Vedremo. Per ora circolano molte idee ed ancor più voci; aggiungiamo la nostra, per quel che vale: un governo rosso-giallo che pensasse di avere il mandato politico per ribaltare come un calzino le politiche del governo uscente sarebbe temerario. Primo: perché tale mandato non c’è; secondo: perché alcune di quelle politiche, comunque la si pensi, godono di ampio sostegno nel Paese. Il miglior regalo a Salvini, sarebbe fingere di non saperlo. 

Una cosa è mettere mano ai “decreti sicurezza” e agli show sui migranti, tutt’altra cosa tornare ad un’indiscriminata politica di evangelica accoglienza; una cosa è criticare la flat tax e riporla nel cassetto, tutt’altra cosa fare spallucce sulla necessaria riduzione della pressione fiscale; una cosa è denunciare i deludenti risultati economici ereditati, tutt’altra cosa è approntare le misure necessarie a ristabilire la fiducia e rilanciare la crescita: specie se il socio di maggioranza lo fu già del precedente governo e se il poco che si conosce della sua “cultura politica” è un puerile pauperismo, una cupa ostilità verso i consumi e la prosperità, l’impresa e il mercato. 

Nei Paesi investiti come il nostro da grandi ondate populiste, il populismo tende a diventare “sistemico”: spesso in modo inconsapevole, per una specie di inerzia. La logica manichea del “noi” contro “loro” crea per reazione quella del “loro” contro “noi”. Un governo che facesse della crociata contro Salvini la sua principale ragion d’essere, riprodurrebbe esattamente tale schema, sarebbe a sua volta “populista”. Più saggio e prudente, lucido e logico, sarebbe separare il grano dal loglio, fiutare gli umori che spingono il Paese verso la Lega e dare loro risposte credibili e sensate, evitando irritanti e fatue scomuniche o demonizzazioni. In caso contrario, lo scarto tra governo e Paese, rappresentanti e rappresentati, già così grande tra l’attuale composizione parlamentare e i più recenti risultati elettorali, lieviterebbe ancor più e farebbe infezione; e proprio tale scarto suole essere il maggiore incubatore dei populismi. 

 
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