di Francesco Grillo
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Mercoledì 11 Marzo 2020, 01:01
È come se stessimo combattendo una terza guerra mondiale. Senza mezzi sufficienti e, soprattutto, senza conoscere un nemico silenzioso ed invisibile. 
Che, proprio per questo, è ancora più temibile di un esercito ostile. Tra le vittime di questo conflitto, ancora più asimmetrico dei terrorismi e delle crisi finanziarie, rischia però di esserci la democrazia e la stessa Unione Europea. Assieme a decine di migliaia di persone, rischiano di morire quello “stile di vita” – come lo chiama la Presidente della Commissione Europea, Von der Leyen – che possiamo salvare solo se useremo ragione, pragmatismo, umiltà. E ci ricorderemo, almeno stavolta, che le democrazie sopravvivono solo rendendole capaci gestire le crisi che una globalizzazione non governata sta moltiplicando. 
I numeri che dicono che siamo vicini alla disfatta sono scritti nel bollettino giornaliero pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e nel confronto – che, prima o poi, deflagrerà nelle cronache di guerra e nelle coscienze delle persone – tra Cina ed Europa. Dall’ultimo aggiornamento risulta che dei quattromila nuovi casi di Covid19 che ogni giorno vengono registrati nel mondo, più di due terzi si verificano in Paesi dell’Unione Europea. Da ieri è ufficialmente l’Europa, la porzione di mondo più ricca del globo, quella con il migliore sistema sanitario, ad essere il centro della prima guerra globale del nuovo millennio, proprio come lo fu di quelle due disastrose nel secolo scorso. Intanto, i nuovi contagi in Cina sono talmente pochi che ciò mette Xi Jinping nella condizione di poter dichiarare di averla quasi vinta. Dopo due mesi e fermando i contagi allo 0,007% della popolazione. Percentuale questa che l’Italia ha già superato e che Germania e Francia possono raggiungere in poco più di una settimana.
Se l’Europa e gli Stati Uniti non riuscissero a difendersi da un virus che è stato debellato da economie meno ricche ma molto più centralizzate e con capacità di controllo più capillari, sarebbe la stessa legittimità delle istituzioni che usiamo per organizzarci ad essere messa in discussione. Non è escluso che la malattia, con la recessione, possa fare da bomba sulla quale inciampa un’Europa incapace, persino, di darsi un budget. 
Ma la democrazia può, ancora, vincere. Solo se si ricorda che, di fronte alle minacce, deve scattare una compattezza non ordinaria. Quella che permise – in un altro secolo - di vincere, appunto, altri memorabili scontri. Una compattezza che non è, come ci siamo colpevolmente convinti, una prerogativa delle dittature. Tre, nello specifico, le azioni che, subito, leader responsabili dovrebbero intraprendere.
A livello italiano, una battaglia così difficile non si fa mediando tra troppi, contrapposti interessi istituzionali. Subito andrebbe attivata la possibilità che l’articolo 120 della Costituzione dà al Governo di “sostituirsi a organi delle Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni... nel caso di pericoli gravi per l’incolumità e la sicurezza pubblica”. 
È vero che sull’ultimo Dpcm sembra esserci stata una convergenza di posizioni e, però, già, solo dopo meno di una nottata, la Regione Lombardia chiede ulteriori modifiche. In condizioni talmente instabili da costringere alla produzione di nuove regole e interpretazioni ogni giorno, la sanità, la scuola, i trasporti vanno considerate infrastruttura nazionale. Certo è possibile che l’attuale Governo italiano non sia guidato da Winston Churchill e, tuttavia, anche lo statista inglese avrebbe seri problemi a condurre una battaglia così difficile intrappolato in una interminabile video conferenza.
A livello europeo, poi, dobbiamo prendere atto - definitivamente che un metodo di integrazioni parziali è fallito. Questa crisi dimostra plasticamente, ad esempio, che Schengen non ha – nella sua attuale formulazione – senso. È vero che sulla salute l’Unione non ha competenza, ma di fronte ad un’emergenza come questa, non è tecnicamente pensabile di poter difendere un’area di libero scambio che non riesce ad avere un’unica politica rispetto alla Cina, prima, o al resuscitato Lombardo Veneto, poi: chi fosse respinto ad una dogana, può sempre arrivare a destinazione attraverso un’altra frontiera. 
Per Schengen, così come per l’Unione, l’unica possibilità di sopravvivenza è completare il diritto della libera circolazione, con regole uniche per chi vuole entrare ed un unico centro decisionale per fronteggiare crisi di cui quelle migratorie sono state solo un aperitivo. In Europa ci salviamo solo passando dall’epoca dei matrimoni ambigui, ad una condivisione completa: questa guerra potrà dare, tra qualche giorno, a Francia, Germania e Italia la possibilità di chiedere a tutti gli altri, di assumere decisioni finalmente serie.
Infine, va cambiato il ruolo dei cittadini nella crisi. Giusto chiedere a tutti di rimanere a casa. Ma se una democrazia, soprattutto una democrazia vuole sopravvivere a questa complicata modernità che noi stessi abbiamo prodotto, bisogna chiedere a tutti molto di più. Bisogna chiedere a tutti di essere cittadini. L’idea da lanciare – a emergenza esaurita – è quella di un servizio civile obbligatorio (sul modello della leva militare in Svizzera che ha, però, contenuti civili) che a tutti dia la possibilità di fare esperienza dei rischi, della sofferenza, del disagio che, inevitabilmente, accompagnano la vita. E di acquisire le competenze – sanitarie, logistiche, alimentari – che ci rendano parte consapevole di una storia che non si indirizza verso gli esiti che vogliamo osservandola da casa.
Non possiamo, di certo, pensare di copiare i cinesi. Di imitare una “dittatura democratica” come la stessa Costituzione della Repubblica Popolare definisce sé stessa. E, tuttavia, c’è qualche lezione che osservando il nostro concorrente, dobbiamo imparare. La più importante è che la democrazia, la libertà, i diritti si salvano solo scoprendo che sono il complemento di doveri, responsabilità e decisioni. 
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