di Francesco Grillo
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Mercoledì 25 Marzo 2020, 00:18
Sarà quello della sanità, della riconsiderazione radicale del rapporto tra Regioni e governo centrale, tra ospedali e cittadini, tra pubblico e privato, uno dei cantieri che deciderà della sopravvivenza stessa di uno Stato che si troverà a fronteggiare crisi economiche e di coesione, che saranno appena cominciate quando avremo superato il picco di persone contagiate dal mostro che cerchiamo di contenere.
Certo quello italiano è, ancora, uno dei migliori sistemi sanitari del mondo. Così lo descrivono le analisi comparative più serie, come quelle dell'Organizzazione Mondiale della Sanità e dell'Oecd. 

La sanità italiana è una delle migliori anche se provassimo a sottrarre dall'equazione il peso che può avere uno stile di vita e una dieta che espongono gli italiani a minori rischi e anche se scontiamo le differenze che ci sono tra Regioni. 
E, tuttavia, nonostante la passione, la competenza, l'energia di mezzo milione di medici e infermieri, lo tsunami che ha travolto il sistema facendolo diventare la prima linea di una guerra difficilissima sta, infatti, facendo emergere anche la vulnerabilità di un'organizzazione concepita per fare fronte alla domanda di salute che era tipica del secolo scorso. Che ha subito tagli stupidamente lineari e che non ha la flessibilità necessaria per rispondere ad emergenze straordinarie che la globalizzazione rischia di rendere frequenti.

Tre le questioni di cui dobbiamo cominciare a occuparci subito. Anche prima che l'emergenza finisca. Innanzitutto, c'è una questione grossa di risorse. Le statistiche di Eurostat sono chiare: nel 2007 agli ospedali italiani era dedicata una percentuale (6,4%) della nostra spesa pubblica, superiore a quella registrate negli altri Paesi dell'Unione Europea (5,8%). Nel 2018 in un contesto di riduzione generalizzata delle spese degli Stati le percentuali si erano specularmente invertite (5,9% per l'Italia, 6,2 per gli altri Paesi dell'Unione).

Ne hanno sofferto il numero di posti letto negli ospedali (ne abbiamo la metà di quelli disponibili in Francia e un terzo di quelli su cui possono contare i tedeschi) e, in particolar modo, di quelli per terapia intensiva. Abbiamo pochissimi infermieri, anche se il numero di medici non è inferiore rispetto alle medie comunitarie. La loro età media è però molto più elevata: ciò li rende estremamente vulnerabili rispetto ad un nemico come Covid19 e le proiezioni della Federazione dei medici di medicina generale fanno prevedere che - entro il 2028 ne andranno in pensione quasi la metà. L'Italia è, poi, il Paese che di fronte ad un'insufficienza di offerta che stava, già, emergendo prima della crisi, si permette il lusso di respingere con il numero chiuso sei studenti su sette che, ogni anno, si candidano a studiare per dieci anni tra laurea e specializzazione prima di poter cominciare a percepire un vero stipendio.

In secondo luogo, l'emergenza cambia e per sempre la natura stessa del dibattito sui federalismi e sulle autonomie differenziate. È giusto che le Regioni sperimentino modelli organizzativi diversi per preservare quelli che funzionano meglio (ad esempio, in Veneto). E, tuttavia, la crisi dice in maniera inequivocabile - dopo il caso Lombardia - che esistono, almeno, tre cose che il Ministero della Salute deve fare di più e meglio: gestire l'emergenza e spostare offerta (di medici o di tecnologie) tra Regioni quando specifici territori cedono; garantire che i dati su ospedalizzazioni, patologie, decessi, stili di vita siano centralizzati e raccolti in maniera omogenea per misurare bisogni e prestazioni: lo Stato deve garantire quella parità di trattamento prevista in Costituzione; trasferire da un'area geografica ad un'altra, i modelli organizzativi che funzionano meglio.
In terzo luogo, un sistema sanitario più robusto, finalmente da ventunesimo secolo, dovrà cercare un rapporto diverso con i cittadini. Superata la fase nella quale il miglior contributo possibile era stare a casa, alla società civile bisognerà chiedere esattamente il contrario: di essere parte attiva di un'organizzazione sociale capace di superare grandi stress.

In Svizzera, in Israele, in Giappone, nella stessa Corea del Sud, i cittadini sono sistematicamente allenati a rispondere all'emergenza. In Italia ci sono pochi in gradi di assistere i pazienti non ospedalizzati: la strozzatura per somministrare tamponi, ad esempio, è data da un numero non sufficiente di operatori in grado di prelevare un campione dalle zone faringee. Formare una riserva di cittadini in grado di dare flessibilità al sistema sanitario e di occuparsi dei propri familiari e dei propri vicini, significherebbe diventare tutti più forti. Capaci di prestare cure immediate, identificare sintomi, consigliare a sé stessi e agli altri stili di vita più sani.

Una riforma del numero chiuso che sposti il momento di selezione (e orientamento) dei medici futuri agli anni successivi al primo (discussione già stancamente in corso alle commissioni della Camera); un adeguamento dell'offerta di strutture sanitarie al livello di altri Paesi europei e, soprattutto, una modernizzazione che crei i presupposti per curare le persone a casa (attraverso strumenti di diagnosi e intervento a distanza) e sposti sul territorio apparati clinici mobili; il finanziamento che incoraggi un volontariato di qualità o un servizio civile obbligatorio che ci prepari tutti all'emergenza: dovrebbero essere questi gli impegni che renderebbero credibile la richiesta di ulteriori risorse ai mercati finanziari, da parte di uno Stato già fortemente indebitato.

Le sirene delle autoambulanze ci ricordano ogni cinque minuti - che quella in corso è la prima guerra globale del nuovo millennio. Per onorare i sacrifici di quelli che cadono ogni giorno e la combattono in trincea, sarà necessario immaginare e realizzare una rifondazione del modo in cui governiamo società complesse e garantiamo a tutti il diritto fondamentale alla salute che definisce una civiltà.
 
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