di Francesco Grillo
6 Minuti di Lettura
Lunedì 7 Dicembre 2020, 00:03

«È come se stessimo combattendo la prima guerra globale del ventunesimo secolo, armati dei muli e dei mortai con i quali riuscimmo a vincere – quasi da soli – quella mondiale che finì a Vittorio Veneto cento anni fa». <HS9><HS9>È questo il commento che mi faceva sconsolato qualche giorno fa uno dei decani della dirigenza pubblica italiana, ragionando sullo sciopero che il 9 dicembre dovrebbe portare alla chiusura di tutti gli uffici, mentre è proprio dallo Stato che si aspetta una risposta agli eventi che ci stanno spingendo con violenza in un mondo nuovo. <HS9><HS9>Ha ragione la ministra della Funzione pubblica, Fabiana Dadone, che la differenza la fa la riflessione sui nodi concreti che dobbiamo sciogliere e, tuttavia, sono gli stessi numeri che le amministrazioni – in maniera abbastanza trasparente – forniscono a dare un’idea di quanta strada c’è da fare per “smettere di vivere nel passato”. In pochissimo tempo peraltro, perché con la macchina amministrativa che abbiamo, rischiamo di non cominciare neppure quella corsa (quella dell’uscita dall’emergenza e della ricostruzione) sulla quale ci giochiamo – nelle prossime settimane – praticamente tutto. 


Non sono tantissimi i dipendenti pubblici in Italia. Secondo l’Oecd, siamo intorno al 14% degli occupati e, dunque, a livelli superiori a quelli della Germania (11%) ma inferiori a quelli dei cugini spagnoli (16) e dei francesi (22) che teorizzarono il modello istituzionale al quale si ispirò il Regno e poi la Repubblica. Sono, invece, superiori le remunerazioni dei dirigenti dello Stato (come evidenzia il grafico che prende in considerazione quelli che sono definiti “middle manager” dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro). Sono pagati, invece, meno che in altri Paesi (e meno degli altri comparti del pubblico impiego italiano) quelli che lavorano sul fronte – ospedali e scuole – che collega Stato e cittadini. Infine, per entrare nello specifico oggetto dello sciopero, è vero che gli stipendi della Pa sono sostanzialmente fermi dal 2016, ma ancora più fermi sono stati – secondo l’Agenzia Nazionale che fa i contratti del pubblico impiego (Aran) – quelli nel settore privato che sta facendo i conti con garanzie molto più tenui.


Aveva ragione, dunque, la ministra a proporre che l’aumento previsto dal nuovo contratto fosse differenziato per sostenere gli stipendi più bassi (proposta questa respinta dal sindacato a strettissimo giro). E, però, il problema è ancora più vasto e strutturale. Ne è esempio la stessa amministrazione – Dipartimento Funzione Pubblica presso la Presidenza del Consiglio – che la ministra guida e a cui è affidato il ruolo stesso di innescare e sostenere una riforma che non può che essere continua. Se si analizzano gli stipendi dei dirigenti di vertice (quelli di prima fascia) del Dipartimento, scopriamo che sono pagati tutti nella stessa maniera (tra i 197mila e 207mila euro con l’eccezione di Angelo Borrelli al quale è stato riconosciuto un bonus di posizione di 10mila euro per essersi dovuto occupare della pandemia come capo della Protezione Civile). Ancora più sorprendente è scoprire che percepiscono praticamente tutti la stessa retribuzione legata al risultato, e che quattordici dei ventiquattro vertici del cambiamento dello Stato, sono laureati in giurisprudenza; ci sono solo due che invece lo sono in Economia (laddove sostenere un cambiamento organizzativo, probabilmente, richiede una certa sensibilità manageriale) e solo uno in Ingegneria (anche se è evidente che le tecnologie stanno per sconvolgere le forme stesse dello Stato).


Sono questi i numeri che dicono che, dunque, al di là dello sciopero e delle zuffe “ideologiche”, l’Amministrazione pubblica italiana – a partire dal proprio vertice, laddove le analisi citate danno riscontri simili per altri ministeri – non riesce né a premiare, né a riconoscere (nel senso di misurare) il merito.

Essa è dominata da una cultura della correttezza dell’atto amministrativo (che è certamente un riflesso condizionato di fronte alla produzione legislativa più ridondante e illeggibile del mondo) che può spezzare qualsiasi tentativo di rottura della routine. E che sembra escludere la combinazione di esperienze diverse senza le quali la complessità non può, neppure, essere capita. Numerose sono le professionalità di alto livello e le passioni e, tuttavia, strutturalmente faticano mostruosamente a sostenersi in quanto è il sistema che sembra aver rinunciato – dopo decenni di riforme sofisticate ed inutili – ad un cambiamento al quale – neppure nei ministeri – crede più nessuno. 


Lo sciopero, in questo senso, ha un merito. Sancisce che è ancora viva un’idea hegeliana di uno Stato inteso come blocco monolitico e le cifre sulla partecipazione potrebbero dire che questa nozione è superata, persino, tra gli impiegati pubblici. Non esiste più il pubblico impiego come ceto produttivo unico e, invece, esistono sempre di più settori con esigenze profondamente diverse (sarebbe, in questo momento, irresponsabile che a scioperare fossero i medici o gli insegnanti). Un universo che è abitato da individui che stanno mostrando un diverso attaccamento al proprio onore: tra i medici si sono quelli che – senza straordinari – rischiano la vita nei reparti Covid e tra gli insegnanti quelli che – fuori dagli orari Dad – stanno provando a recuperare pezzi di programmi persi nei mesi scorsi.


Lo Stato è garante (come dice la Costituzione) della stabilità e della parità di trattamento e, però, siamo ora in un mondo nel quale muori se non ti adatti a quella che, ormai, non è più una rivoluzione industriale ma una mutazione biologica indotta dalle tecnologie. Superare la logica dei concorsi e dei contratti a tempo indeterminato persino nei ministeri; attaccare ad ogni scuola, ad ogni ospedale, agli uffici che gestiscono opere pubbliche, indicatori che i cittadini stessi possono controllare; assegnare ad agenzie come l’Aran il compito di organizzare contratti di lavoro con meccanismi che garantiscano che le retribuzioni di risultato e di posizione non sfidino la fisica, la logica (e la legge) che le vuole – per definizione – variabili. Sono queste le scelte concrete. Ed infornate improvvise di mezzo milione di dipendenti in più su una infrastruttura, e regole che rimanessero uguali (proprio come quelle immaginate per la Scuola), infliggerebbero solo un ulteriore onere su un’organizzazione che già non riesce più a gestire se stessa.


Una dirigenza pubblica che non riconoscesse di dover rischiare tanto quanto rischiano i cittadini che ne pagano lo stipendio, non può rispondere ad una sfida come quella del Next Generation Eu che non è solo un documento, ma un progetto di trasformazione che attraversa un intero Paese, dai ministeri di Roma ai borghi della Sila. E neppure potrebbe farlo una task force che non fosse rigorosamente attaccata – nelle lettere di assunzione, nelle remunerazioni e nelle conferme – a obiettivi verificabili da tutti e che la Commissione Europea si aspetta di raggiungere a intervalli di tempo assai serrati. Bisogna, subito, fare uno scatto di responsabilità che buchi la rassegnazione nella quale naviga un Paese intero e la sua macchina amministrativa. Paradossalmente, l’anno più brutto della Storia può essere l’alleato potente di un cambiamento mille volte promesso e mille volte miseramente fallito.

www.thintank.vision
 

© RIPRODUZIONE RISERVATA