di Carlo Nordio
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Sabato 5 Ottobre 2019, 00:00
Quando, quasi un mese fa, il Presidente del Consiglio annunciò trionfalmente che alcuni Paesi europei avevano manifestato la loro disponibilità alla redistribuzione dei migranti, scrivemmo su queste pagine che la notizia sarebbe stata buona se avesse avuto un seguito concreto. E quando, il 24 settembre scorso, lo stesso Premier proclamò da New York che l’accordo era stato raggiunto a Malta, ribadimmo la speranza che alle parole seguissero i fatti. 
Ora ci piacerebbe scrivere che la redistribuzione è iniziata, e che finalmente l’Europa comincia, dopo averci a lungo presi in giro, a occuparci di noi. Invece la novità è un’altra, ed è l’ennesimo proclama di un evento, incertus an incertus quando, contenuto nel decreto interministeriale annunciato altrettanto solennemente ieri da Di Maio. Secondo questo provvedimento i tempi di rimpatrio degli irregolari nei Paesi di origine “sicuri” sono ridotti a quattro mesi. 

Nel frattempo la redistribuzione non è nemmeno iniziata, e gli sbarchi sono aumentati. Naturalmente non disperiamo: per deferenza verso per il ministro e la sua carica, auspichiamo che le operazioni comincino presto ed conseguano i risultati promessi. E tuttavia questo decreto pone alcune questioni.
Primo. Con questa editazione solenne, Di Maio dimostra di essere il primo a non credere affatto nella buona volontà dell’Europa, e nemmeno nell’accordo con Francia e Germania vantato da Conte. La strada tracciata dal primo ministro era infatti quella della solidarietà internazionale e della gestione dei migranti secondo una ripartizione proporzionale, da iniziarsi entro un mese dalla stipula. Poiché ormai sono trascorsi quindici giorni, che bisogno c’era di questa nuova iniziativa? Bastava aspettare altre due settimane e verificare la buona volontà dei contraenti. Invece Di Maio ha anticipato i tempi, creando nuove aspettative: questo significa che non crede affatto in quelle suscitate a Malta. E, ad esser franchi, non ci crediamo neanche noi.

[/FORZA-RIENTR]Secondo. Come abbiamo ripetuto più volte, sul concetto di rimpatrio si è spesso giocato con ingannevoli riserve mentali. Si è infatti lasciato intendere che si trattava di una vera e propria riconsegna dell’irregolare al Paese di origine, mentre in realtà ci si limitava a firmare un ordine che di fatto restava ineseguito. I costi del trasferimento sono infatti enormi, e le difficoltà talvolta insormontabili, perché se l’espulso oppone resistenza e commette un reato automaticamente resta qui in attesa del processo. Cioè per sempre. Ora Di Maio ci dice che in quattro mesi i clandestini saranno rispediti a casa. <HS9>Sarebbe un miracolo di efficienza. Peccato che non abbia detto come farà. Anche qui, temiamo che si tratti di una sortita propagandistica, che mira a smarcarsi dagli alleati e segnatamente dal Pd, il quale, com’era prevedibile, si è subito allarmato: Zingaretti ha risposto in modo stizzito che è una corsa a piantare le bandierine. E il Viminale, cui sarebbero demandati i compiti esecutivi, ha fatto trapelare un forte scetticismo.

Terzo. Ammettiamo pure che Di Maio mantenga la parola, e che entro questi quattro mesi inizino i rimpatri coatti. Che faranno i suoi alleati? Molti di loro sono ideologicamente contrari a misure coercitive di riconsegna, e alcuni hanno persino applaudito Carola Rackete quando la sua nave ha rischiato di travolgere una nostra vedetta militare perché, a loro dire, si trattava di questione di coscienza. Ebbene, chi dei due rinnegherà le proprie convinzioni? Chi dei due dirà che Parigi val bene una messa, dimenticando che quando è questione di coscienza, come disse Benedetto Croce, una messa conta mille volte più di Parigi? Vedremo.
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