di Carlo Nordio
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Giovedì 7 Marzo 2019, 00:14
La decisione della Corte Costituzionale di “salvare” la legge Merlin era prevedibile per due ragioni. La prima, che la Corte sul punto si era già pronunciata più volte. La seconda, che una legge può essere inadeguata e nociva - e la legge Merlin lo è - ma non per questo contrastare con la Costituzione. Anzi, bene ha fatto la Corte a dare una risposta netta.


Una risposta netta senza suggerire interpretazioni, né integrazioni o correzioni. L’abrogazione di questa legge è questione squisitamente politica e la Corte non deve né può sostituirsi all’inerzia del legislatore. Ma per spiegare perché essa sia inadeguata e nociva sarà bene ricostruirne la storia. I postriboli, come è noto, erano sempre esistiti. Il fascismo ne aveva fatto una sorta di punto d’onore, conciliando il maschilismo di regime con la tutela della salute e il controllo sociale. E la stessa Chiesa, pur condannando la lussuria in genere e quella extraconiugale in specie, aveva dimostrato un’indulgenza benevola, considerando che la solidità del matrimonio, insidiata dalle inesauribili fantasie umane, poteva esser meglio garantita indirizzando le trasgressioni in luoghi assistiti dal sanitario e vigilati dall’autorità. 

Nel dopoguerra, la senatrice socialista Angelina (Lina) Merlin iniziò la battaglia per la chiusura di queste case. Le motivazioni erano due: tutelare la dignità della donna, ed evitare che il proletariato «scivolasse verso la sfrenatezza».Sul punto la senatrice citò Lenin, manifestando così l’arcigno moralismo dei totalitarismi etici, che si propongono di educare il suddito secondo i voleri della collettività organizzata. Il dibattito durò dieci anni, e vide parecchi dissidenti all’interno del medesimo partito. Anche qui le obiezioni erano due, simmetriche alle ragioni della Merlin: che la legge vulnerava le libertà individuali, e che avrebbe, di fatto, aggravato i problemi. 
Benedetto Croce, non sospetto di libertinismo postribolare, concluse pragmaticamente che mantenere i lupanari aperti era il male minore. Ma la legge passò, con l’approvazione, più o meno convinta, dei democristiani. Essa non puniva - né punisce - la prostituzione in quanto tale, ma solo il suo sfruttamento o la sua agevolazione. Espressione quest’ultima evanescente ed ambigua, che ha spesso generato incertezze applicative. 

Nel frattempo la situazione è completamente mutata, con il fenomeno dell’immigrazione irregolare. Migliaia di ragazze sono state portate in Italia e ridotte di fatto in schiavitù a beneficio delle più spregiudicate organizzazioni criminali. Non è vero che vengano tutte ingannate sulla natura del lavoro. Molte sanno benissimo che finiranno sulla strada. Ma pensano di farlo a proprio profitto e in condizioni di autonomia mentre, una volta arrivate, vengono costrette sotto le minacce più turpi a consegnare quasi tutte le entrate ai loro sfruttatori. Un commercio ignobile che né le leggi né le forze dell’ordine riescono a impedire.
Dal canto suo, l’Europa si è organizzata. Consapevole che l’etica sessuale è prerogativa dell’individuo, ha liberalizzato quasi dappertutto la prostituzione. Cosicché il nostro Paese è circondato da Stati, come Slovenia, Croazia, Austria e la stessa Svizzera, dove il turismo sessuale degli italiani ha assunto i caratteri di un esodo continuo, ininterrotto, pacifico e pubblico. Ai confini del Friuli i bordelli hanno sostituito i vecchi distributori di benzina a basso costo, e la clientela italiana disperde cospicue risorse finanziarie in flussi ingenti e incontrollati. Possiamo concludere che la complessiva sottrazione tributaria derivante da questa attività in Italia e all’estero coprirebbe il contestato reddito di cittadinanza. 

Che fare allora? Predicare che la prostituzione ferisce la dignità femminile significa recitare una favola vuota, confondendo la scelta individuale di una donna adulta con lo sfruttamento ricattatorio organizzato dagli schiavisti criminali. Al contrario, l’organizzazione volontaria di questa attività non recherebbe nessun oltraggio a chi vi si dedicasse con una risoluzione libera e consapevole. Non eliminerebbe tutti i problemi, ma li ridurrebbe considerevolmente; e produrrebbe introiti da impiegare proprio a sostegno dei soggetti più deboli, convertendo, come abbiamo detto altre volte, i vizi privati in pubbliche utilità.
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