di Alessandro Orsini
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Lunedì 11 Novembre 2019, 00:08
Cinque soldati italiani in Iraq sono rimasti gravemente feriti a causa di una mina e uno di loro ha purtroppo subito l’amputazione di una gamba. All’analisi dei fatti vogliamo far precedere il nostro cordoglio. Per quanto i dati presenti sul sito del ministero della Difesa siano in aperta contraddizione – in un grafico i soldati italiani in Iraq e in Kuwait sono 868 e in un altro 1.497 – l’Italia risulta essere impegnata in 37 missioni, di cui 35 internazionali, in 22 Paesi, che impegnano 12,900 unità. Un dispiegamento così ampio di forze espone inevitabilmente a pericoli mortali, che purtroppo si manifestano oggi, a pochi giorni dall’anniversario della strage di Nassiriya, sempre in Iraq, il 12 novembre 2003.

Passando all’analisi dei fatti, la domanda che tutti si pongono è se siamo in presenza di un attentato mirato oppure di un evento accidentale. Gli elementi a nostra disposizione inducono a ritenere che, né i capi di al Qaeda, né quelli dell’Isis, abbiano elaborato una strategia d’attacco contro i soldati italiani. 

Per valutare i pericoli che corrono i soldati italiani in Iraq, occorre sapere che cosa sia la “gerarchia dell’odio” delle organizzazioni jihadiste: uno strumento concettuale da noi elaborato per entrare nella mente dei terroristi e prevedere le loro mosse. 

Nella mente dei terroristi dell’Isis, i Paesi dell’Europa occidentale non sono tutti odiati allo stesso modo e, di conseguenza, non tutti sono esposti agli stessi pericoli. I vertici dell’Isis hanno sviluppato una gerarchia dell’odio che pone i Paesi europei su un podio a cinque scalini. I più odiati sono quelli che hanno bombardato le roccaforti dell’Isis in Siria e in Iraq ovvero Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda e Danimarca. Sul secondo gradino, ma in realtà a pari merito con i primi, si trovano gli Stati che hanno inviato i propri soldati a ingaggiare il corpo a corpo con i militanti dello Stato Islamico ovvero Turchia, Iran e milizie di Hezbollah. Sul terzo gradino siedono i Paesi che, come la Germania, hanno inviato soldati, aerei e navi da guerra in attività di supporto alla Francia, ma senza un ruolo combattente. Sul quarto gradino ci sono quelli che si limitano a inviare i propri soldati a presidiare strutture di pubblica utilità e ad addestrare i soldati iracheni al combattimento contro l’Isis. Sul quinto gradino, vi sono gli Stati europei che, pur appartenendo alla coalizione anti-Isis, in realtà non fanno niente. L’Italia si trova al quarto posto perché non ha mai voluto sparare contro i jihadisti, nonostante gli inviti ripetuti della Casa Bianca, limitandosi alle attività di addestramento e protezione di infrastrutture, come la diga di Mosul. Ne consegue che è molto meno odiata della Francia, ma comunque esposta a pericoli. Tuttavia, tali pericoli sono quelli a cui chiunque sarebbe esposto in un teatro di guerra, come imbattersi in una mina. Siccome l’Italia non è stata mai bersagliata dai jihadisti quando la lotta sul campo contro lo Stato islamico era più intensa, vale a dire nel periodo 2015-2017, è difficile immaginare che il successore di al Baghdadi scelga di accanirsi contro l’Italia, che ha un ruolo così marginale nella lotta frontale contro il terrorismo, come strategia per imporre un’immagine vincente di sé. Non risulta inoltre - scandagliate tutte le analisi che i servizi segreti hanno presentato al Parlamento - che i capi dell’Isis abbiano mai cercato di organizzare un attentato in Italia. È possibile che, nelle prossime ore, l’Isis cerchi di “intestarsi” questo atto di guerra con un comunicato, ma non significherebbe necessariamente che l’Isis abbia voluto colpire i soldati italiani intenzionalmente. Una cosa è organizzare un attentato; altro è sfruttare mediaticamente il suo accadimento per dare un’immagine vincente di sé. Detto più semplicemente, i vertici dell’Isis hanno rivendicato non pochi attentati, che però non avevano organizzato. Quasi certamente continueranno a farlo anche dopo al Baghdadi. Per comprendere le mosse “punitive” dell’Isis, occorre sapere che i suoi capi attribuiscono la massima importanza alla politica estera dei Paesi nemici. Al momento, non risulta che Luigi Di Maio abbia modificato la linea strategica dell’Italia nella lotta contro le organizzazioni jihadiste.
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