di Alessandro Orsini
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Giovedì 19 Marzo 2020, 00:00
Il coronavirus porrà un freno alla globalizzazione. Gli Stati sospendono i voli e chiudono i confini. Quando il virus sarà sconfitto, il mondo non sarà più lo stesso. Questa, in sintesi, è la tesi prevalente, che ha l’aspetto di un articolo di fede. Non esiste infatti nessuna evidenza che induca a una simile conclusione. Il disastro di Chernobyl del 1986 creò una situazione più tragica di quella attuale.

A differenza del coronavirus, Chernobyl non infettò soltanto le persone, ma tutto il creato. Se osserviamo l’evoluzione dell’economia mondiale, i dati non lasciano dubbi: dopo Chernobyl, la globalizzazione è diventata più impetuosa e non si riesce a capire perché mai il coronavirus dovrebbe segnare la sua fine, in che modo e con quali finalità. La tesi della fine della globalizzazione è come la tesi della fine della storia, elaborata da Francis Fukuyama dopo il crollo del comunismo: radicata nell’immaginazione.
È, invece, una tesi opposta che vogliamo presentare e cioè che il coronavirus creerà, molto probabilmente, una crescita della globalizzazione, invece della sua riduzione.

In primo luogo, il coronavirus ci sta abituando al lavoro da casa che, se si radicherà in virtù dell’abitudine, consentirà alle imprese di ridurre gli stipendi di molti dipendenti. Una cosa è ricevere 1700 euro al mese in cambio della presenza quotidiana in ufficio, che richiede spese di trasporto e pranzi fuori casa, ma anche per accudire figli e genitori anziani, altro è pretenderli per lavorare da casa. Se però lo stipendio diminuisce, i lavoratori dovranno ingegnarsi per guadagnare di più e un mercato globale accresce le probabilità di “arrotondare”. 

Se Milano commercia con tutto il mondo, le probabilità crescono; se commercia soltanto con l’Italia, diminuiscono. Vale anche per le università: perché mai gli studenti dovrebbero pagare le stesse rette, se i professori registrano le proprie lezioni e le rendono disponibili online? Molte registrazioni sarebbero utilizzabili per anni senza aggiornamenti. Il diritto penale resterà lo stesso e la teoria di Einstein non cambierà. Gli studenti graveranno di meno sulle strutture, riducendo i costi d’illuminazione e molto altro. La conseguenza è che le università italiane dovranno parlare sempre di più in inglese e globalizzarsi per raggiungere nuovi mercati e compensare la riduzione delle entrate. Potremmo aggiungere decine di esempi, ma preferiamo arrivare al punto: nessun sistema economico può durare a lungo se non è in armonia con il sistema culturale in cui è inserito. 

I sistemi economici sono modellati soprattutto dalle norme giuridiche, che non possono scontrarsi con i valori dominanti. È dimostrato dalla Cina, che ha inventato un capitalismo a propria immagine e somiglianza. Il capitalismo della Cina è diverso da quello degli Stati Uniti perché diverse sono le loro culture politiche. Allo stesso modo, il capitalismo europeo è diverso da quello americano perché europei e americani hanno culture politiche simili, ma diverse. Questo aiuta a comprendere come mai l’assistenza sanitaria sia gratuita in Italia e negli Stati Uniti no. Indizi non trascurabili inducono a ritenere che, una volta sconfitto il coronavirus, la cultura della globalizzazione si sarà rafforzata rispetto alla cultura nazionalista. La lotta contro il virus richiede di restringere i confini, è vero, ma impone, nel contempo, una crescita della solidarietà e della cooperazione tra i governi, immortalata dall’arrivo dei medici cinesi a Roma per aiutare gli italiani. La foto di quei cinesi sorridenti è globalista mica nazionalista. La crescita della solidarietà si esprimerà, per forza di cose, ovvero per esigenze sistemiche, anche nei provvedimenti della Banca centrale europea, soprattutto dopo l’improvvida dichiarazione di Christine Lagarde - che ha fatto schizzare lo spread di Italia, Spagna, Grecia, Portogallo e Francia - poi ritrattata per paura di essere sfiduciata.
 
Se l’Italia fosse l’unico Paese europeo a combattere contro il virus, la cooperazione non sarebbe così intensa. Ma il virus colpisce senza distinzioni di nazionalità e impone all’Europa di adottare misure nell’interesse di tutti. Come dimostra la rivolta di Hong Kong, nessuna economia può prosperare a lungo se vive in contrasto con la cultura in cui è immersa, e non è escluso che il coronavirus finisca per promuovere più la cultura delle società aperte che delle società chiuse. Se la cultura sarà globale, il mercato non potrà essere nazionale. 

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