Carlo Cottarelli: «Persino la “spesa cattiva” può essere utile all'inizio: guai se dovesse prevalere»

Carlo Cottarelli: «Persino la spesa cattiva può essere utile all'inizio: guai se dovesse prevalere»
Carlo Cottarelli: «Persino la “spesa cattiva” può essere utile all'inizio: guai se dovesse prevalere»
di Roberta Amoruso
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Mercoledì 16 Settembre 2020, 09:31 - Ultimo aggiornamento: 30 Settembre, 17:44
Carlo Cottarelli, lei ha lavorato con due presidenti del Consiglio, Enrico Letta e Matteo Renzi, ma del suo piano sulla spending review, così cruciale per il Paese, ben poco è stato attuato. Ora siamo tutti d’accordo che poter disporre complessivamente di circa 300 miliardi di risorse europee sia un’occasione irripetibile. Ma come si fa ad evitare che si trasformi nell’ennesima occasione perduta per l’Italia?
«Innanzitutto va chiarito che in realtà le risorse Ue a disposizione sono molte di più. Basti pensare agli acquisti di titoli di Stato della Bce: per l’Italia valgono circa 220 miliardi solo nel 2020. L’anno prossimo forse saranno meno, ma parliamo comunque di oltre 100 miliardi. E sarà cruciale fare in modo di investire su fronti che lascino qualcosa alle generazioni future. Di qui il nome del fondo Next generation».

Quali sono le priorità?
«Di sicuro servono investimenti in infrastrutture e nei piani “verdi”, fino ad arrivare alla necessaria dote di risorse da impegnare in digitalizzazione, pubblica istruzione, ricerca e miglioramento della giustizia e Pubblica amministrazione. Bisogna far funzionare i servizi pubblici, è evidente. Si tratta di capitoli che andranno dettagliati e comportano tutti una spesa anche elevata, ma sarà una spesa temporanea».

Come evitare gli sprechi?
«Ovviamente questo rischio c’è. Quando arrivano tanti soldi, si sente meno la necessità di risparmiare».

Quindi vuol dire che ora più che mai non è tempo di spending review?
«Proprio così: è difficile immaginare ora a una revisione della spesa che consenta di risparmiare qualcosa. Sarebbe necessario farlo, ma se non si è riusciti a farlo quando il vincolo di bilancio era stretto, ora che le maglie sono più larghe mi sembra politicamente più difficile farlo. Vedremo».

Però si possono evitare esasperazioni sulle spese future.
«È un po’ lo stesso discorso: bisognerebbe farlo ma, ripeto, quando c’è un’ampia disponibilità di risorse è più alto il rischio di spreco. Va chiarita comunque una cosa: nell’immediato, anche lo spreco risolleva l’attività economica».

Nel senso che comunque sono risorse che entrano in circolo e fanno bene all’economia?
«Non tutte. Quando lo Stato regala soldi o, peggio, li spende in progetti improbabili, non risolleva certo la capacità produttiva del Paese. Resta il fatto che quei soldi possono aiutare ad accrescere i consumi. Quindi nell’immediato, qualunque spesa pubblica, anche quella cattiva, può aumentare temporaneamente il reddito. Però quando finisce quella spesa il reddito torna dov’era prima. Accrescere la capacità produttiva del Paese è altra cosa. Ecco perché è così importante selezionare tra progetti buoni e progetti cattivi».

È proprio qui, però, che si gioca la partita del Paese, nell’effetto di lungo termine.
«Proprio così: l’obiettivo deve essere aumentare davvero la capacità di crescita del Paese rendendola duratura. E perché questa direzione non sia persa potrebbe aiutare il controllo esterno sull’impiego effettivo dei fondi. Ma non sono sicuro che questo basterà».

Troppo difficile entrare nel merito di investimenti così complessi?
«No, non sono sicuro che accada, semplicemente perché anche a livello europeo ci sono condizionamenti politici. E magari si chiude un occhio con controlli non così stringenti come sarebbe necessario. Senza contare che, soprattutto quando si parla di riforme strutturali, è molto complicato verificare se certe azioni sono state effettivamente implementate. Basta cambiare una virgola e in una legge cambia tutto. Per non dire dei problemi di interpretazione del lessico».

Però le condizionalità sul debito e sul deficit hanno funzionato.
«In questo caso è relativamente facile: si tratta di numeri. Ben più difficile è il vaglio delle condizionalità su azioni di carattere strutturale».

Condivide l’analisi di Mario Draghi sul debito buono e quello cattivo?
«Sì, con una differenza. Draghi non l’ha detto perché guarda avanti, alle prossime generazioni, ma come ho detto nell’immediato anche il debito cattivo ti dà una spinta “drogata” alla domanda e quindi alla produzione. Relativamente al lungo periodo bisogna invece distinguere tra progetti buoni e cattivi».

Come deve essere un progetto per essere credibile agli occhi di Bruxelles e quindi capace di avviare l’iter delle erogazioni previste dal Recovery?
«Deve precisare in modo chiaro e senza finalità equivoche gli obiettivi, descrivere gli strumenti utili alla sua realizzazione e mettere in fila le risorse strettamente necessarie».

C’è chi sostiene che, grazie alle risorse concesse dalla Ue, l’Italia avrà finalmente modo di restringere il gap che su molti fronti la separa dai partner più robusti e dinamici dell’Unione. Ma come riuscire nell’impresa se altri governi mettono sul tavolo ben più risorse, come per esempio sta facendo la Germania?
«Intanto Berlino avrà meno risorse dal Recovery, quindi è costretta a sopperire con finanza propria.
In ogni caso, non c’è dubbio che un paese come la Germania, con un debito così basso, si potrà muovere con maggiore agilità. Per questo è nato il Recovery Plan: lo scopo è tentare di pareggiare le condizioni di partenza tra Paesi che possono farcela da soli e Paesi che invece hanno bisogno di sostegno, come appunto l’Italia. Per questo è essenziale che il governo non sbagli un colpo: non avremo una seconda occasione per riemerge».
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