Pensioni, il presidente Inps: «Flessibilità e aspettativa di vita, ecco la ricetta per uscire da Quota 100»

Tridico, presidente Inps: «Flessibilità e aspettativa di vita, ecco la ricetta per uscire da Quota 100»
​Tridico, presidente Inps: «Flessibilità e aspettativa di vita, ecco la ricetta per uscire da Quota 100»
di Andrea Bassi e Luca Cifoni
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Venerdì 27 Dicembre 2019, 00:13 - Ultimo aggiornamento: 16:08

Presidente Tridico, nel corso della sessione di bilancio si è discusso sull’opportunità di abolire Quota 100, una misura criticata anche dalle istituzioni internazionali. Invece rimarrà fino al 2021, creando per di più uno scalone dall’anno successivo per i lavoratori che hanno mancato di poco i requisiti.

Quota 100, pensioni flessibili per il "dopo": ipotesi età variabili con possibili penalizzazioni


«Quota 100 è stata una misura sperimentale. Abolirla, dopo solo un anno, sarebbe stato inopportuno, con la frustrazione di legittime aspettative. Allo scadere naturale si può pensare a una revisione complessiva del sistema che abbia l’ambizione di essere strutturale, fermo restando che Quota 100 in sé costituisce già uno scivolo temporaneo per ammorbidire lo scalone per molti che non sono coinvolti dalle altre forme di anticipazione, dopo la riforma del 2011. Ad ogni modo abbiamo due anni di tempo per riflettere e per condividere proposte con le parti sociali, una grande occasione dunque».

Ma in che direzione dovrebbe andare questa revisione? Il nostro Paese può permettersi di tornare ad incrementare la spesa previdenziale, invertendo la marcia rispetto alle riforme del passato?
«Bisogna intendersi sul concetto di spesa. Ad esempio dire che l’Inps ha la spesa pensionistica più alta dell’Unione Europea è sbagliato, perché all’interno di quel 15% del Pil c’è sia assistenza, finanziata dalla fiscalità generale, che previdenza, finanziata dai contributi, oltre ad un enorme peso dell’Irpef per circa 58 miliardi: soldi che rientrano nelle casse dello Stato. Per questo sarà importante separare la previdenza dall’assistenza, rendendo contabilmente trasparente il bilancio dell’istituto».

Quindi qual è la sua idea di riforma?
«A mio parere bisognerà mettere a frutto soprattutto l’analisi della prossima commissione sui lavori gravosi, superando le età di pensionamento uguali per tutti. Si potrebbe pensare ad un sistema di coefficienti che tengano conto appunto della gravosità del lavoro. Sarebbe un modo per prevedere un’età di uscita dal lavoro per ogni categoria, in maniera flessibile. Il minatore avrà un indice di gravosità più alto e quindi potrà uscire prima. Certo ci dovrà essere un’età minima, la stabilirà il legislatore». 

Questo tipo di uscita sarebbe penalizzato dal punto di vista dell’importo dell’assegno?
«Visto che comunque si applica il metodo contributivo, ci sarà la naturale penalizzazione legata al contributivo. Ma c’è anche un’altra possibile novità che andrebbe valutata».

Quale?
«Si può pensare ad una correzione di una norma che reputo ingiusta, cioè l’incremento dell’aspettativa di vita con effetti sui requisiti di pensionamento per tutti, anche su chi è già vicino alla pensione. Si dovrebbero neutralizzare gli effetti degli incrementi sull’età di pensionamento, da una determinata età in poi, ad esempio da 60 anni: in modo che l’aumento dell’aspettativa di vita sia bloccato per le singole coorti di lavoratori. Per ogni anno di nascita una certa aspettativa, che poi non cresce più. Così si dà certezza».

Sembrano misure costose. Come finanziarle?
«Stiamo parlando di riforma strutturale che non sarà a costo zero. Però si potranno usare intanto le risorse non spese per Quota 100. Secondo nostre stime, comunque prudenti, nel 2019 avanzano circa 1,6 miliardi di cui solo 1,1 sono stati conteggiati nel decreto “salva conti” di luglio. Nel 2020 potremo avere 2,5 miliardi».

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Lei ha parlato dell’ipotesi di creare un fondo integrativo pubblico. Come dovrebbe funzionare? 
«Il ministero del Lavoro sta pensando ad una legge delega nella quale inserire un fondo che sostenga, in modo anticiclico, le pensioni del futuro. Soprattutto quelle dei giovani con carriere non continue. L’idea è permettere a chi ha redditi bassi o instabili oggi di avere anche una pensione integrativa domani, con defiscalizzazioni maggiori, e strumenti che vadano ad integrare la pensione obbligatoria proprio per i periodi in cui si è versato di meno. Sarà possibile ad esempio anche aprire a una posizione per un figlio. E si potrebbe pensare che i periodi di versamento aiutino a raggiungere i requisiti della pensione anticipata. Il fondo avrebbe anche la funzione di canalizzare le risorse del fondo nell’economia del Paese e non all’estero. Un ruolo fondamentale potrebbe essere svolto da Cassa Depositi e Prestiti, che per sua natura conosce le necessità dell’economia italiana e del suo sistema produttivo e sarebbe, quindi, in grado di indirizzare tali investimenti laddove ve ne sia più bisogno e in quei settori che presentano le maggiori opportunità di crescita e di rendimento».

Farebbe concorrenza agli attuali fondi integrativi?
«Occuperà fette di mercato che sono libere; oggi aderisce solo il 25% dei lavoratori: sono soprattutto maschi con redditi medio-alti, al Centro-Nord. Il gestore amministrativo saremmo noi e questo permetterebbe di abbattere i costi di gestione che nel caso degli altri fondi sono molto elevati e vanno ad ridurre i rendimenti».

Parliamo del reddito di cittadinanza. Molti ritengono che soffra di un’ambiguità di fondo in fase di progettazione, essendo un po’ strumento di lotta alla povertà un po’ di politica attiva per il lavoro.
«Il reddito di cittadinanza era un passaggio necessario per ridare dignità alle persone in stato di povertà. Si tratta di una misura strutturale di grande impatto, che quindi richiede il giusto tempo per produrre tutti i suoi effetti, ma a mio parere più di 1 milione di domande accolte, con oltre 2,5 milioni di persone coinvolte, è già un risultato straordinario. Se consideriamo il numero di poveri raggiunti rispetto alla platea prevista, dopo solo sei mesi siamo già a un tasso di espansione superiore all’80%, con una forte correlazione tra povertà e sussidi. Oggi osserviamo che il reddito ha ridotto il coefficiente di Gini, cioè le disuguaglianze tra le persone, di 1,2 punti, l’intensità della povertà di circa 8 punti, da 38% al 30% circa, e raggiunto i poveri che si prefiggeva di raggiungere. Sta anche riducendo notevolmente il tasso di povertà assoluto di un ammontare che varia a secondo delle definizioni utilizzate, e su questo daremo dei dati definitivi anche insieme ad altri istituti di rilevazione. Un trasferimento netto di 7,2 miliardi di euro verso i poveri, verso gli ultimi, verso chi ha reddito zero o poco più, è una delle più grandi e più giuste azioni re-distributive fatte nel paese. Quanto alle politiche attive, di per sé non creano posti di lavoro. Certo, possono favorire l’incontro tra domanda e offerta, ma poi per creare lavoro servono investimenti produttivi».

A Roma si registrano sensibili ritardi nella prima erogazione delle pensioni ai dipendenti pubblici. Cosa dice a chi si ritrova ad aspettare anche mesi, senza reddito?
«Come Inps riconosciamo che c’è un problema in particolare nelle grandi città e vogliamo avere un atteggiamento costruttivo.

Il tempo complessivo di definizione di una pensione si è attestato nei primi nove mesi del 2019 sui 42 giorni (erano 47 nel 2018), però varia nelle diverse tipologie e gestioni previdenziali. Per i dipendenti pubblici si registrano tempi generalmente più lunghi, 52 giorni in media. Poi ci possono essere casi particolari più complicati. La minore tempestività dipende dalla bassa qualità delle posizioni assicurative, soprattutto per quelle precedenti al 1996, e quindi dalla complessità delle attività che l’Inps deve condurre in collaborazione con le amministrazioni. L’istituto ha dedicato al problema un ufficio specifico, che oggi dispone di circa 150 unità di personale: si attende un miglioramento ulteriore nei prossimi mesi».

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