Lo spartiacque è fissato a inizio giugno: in quei giorni, l’Istat renderà nota la previsione relativa all’indice dei prezzi al consumo armonizzato (Ipca) depurato dei beni energetici importati.
Un parametro che gli anni scorsi riscuoteva solo l’attenzione degli addetti ai lavori, ma che quest’anno è invece sotto i riflettori. Il valore fissato su base quadriennale (dal 2022 al 2025) servirà come riferimento per i prossimi rinnovi contrattuali: sarà quella l’inflazione “ufficiale” da cui dipenderanno gli aumenti retributivi. Risulterà sufficiente a catturare la dinamica dei prezzi impazzita negli ultimi mesi? Sicuramente no, anche se il numero sarà ben più alto di quello stabilito lo scorso anno per il 2022, un esiguo 1 per cento, seguito da un quasi analogo 1,2 sia che per il 2023 che per il 2024. Cifre che risultano ormai del tutto superate, nello scenario attuale. L’introduzione del nuovo indicatore di riferimento risale al 2009, in seguito ad un accordo tra Confindustria e sindacati che però non fu firmato dalla Cgil. L’Ipca ha sostituito l’inflazione programmata, che a sua volta aveva rimpiazzato negli anni Novanta i meccanismi automatici di adeguamento dei salari alla dinamica dei prezzi. Le regole attuali prevedono la possibilità di un recupero almeno parziale nel caso in cui la previsione si discosti in modo significativo dall’andamento reale.
Che cosa è successo in questi anni? In tempi in cui è stata predominante un’inflazione contenuta, se non addirittura negativa o vicina allo zero, i rinnovi contrattuali hanno generalmente permesso ai lavoratori di difendere bene il proprio potere d’acquisto. Anche perché in alcune fasi era soprattutto la discesa dei prezzi energetici a spingere verso il basso l’inflazione generale. Gli accordi più recenti però si sono attestati su recuperi magari un po’ più alti di quanto previsto dall’Ipca, ma certo non adeguati di fronte all’andamento dei prezzi che si sta materializzando nelle ultime settimane.
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