Green Deal, la guerra alla CO2 resti fuori dalla stalla: allevatori di bovini contro Bruxelles

L'agroalimentare si oppone a Bruxelles che vuole parificare le emissioni del settore a quelle prodotte dall’industria

Green Deal, la guerra alla CO2 resti fuori dalla stalla: allevatori di bovini contro Bruxelles
di Gianni Bessi
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Mercoledì 3 Maggio 2023, 11:51 - Ultimo aggiornamento: 4 Maggio, 07:43

Il Green Deal europeo, con il suo obiettivo di ridurre i gas serra del 55 per cento entro il 2030, oltre ai settori che il senso comune individua come responsabili della produzione di CO2, vale a dire industria e trasporti, sta mettendo pressione anche su quello agroalimentare.

È perciò più che mai attuale il dibattito sui target sfidanti imposti alla zootecnia per quanto riguarda le emissioni. Per capire qual è lo scenario reale, un esempio estremo è quello irlandese: nell’isola di smeraldo a fronte di 5 milioni scarsi di abitanti pascolano oltre 7 milioni di capi di bestiame, in maggioranza bovini. Il peso economico dell’agroalimentare irlandese è rilevante, basti dire che le aziende che si occupano di allevamento sono circa 135.000 e rappresentano il secondo settore industriale dopo quello farmaceutico. Naturalmente una popolazione bovina così densa produce una gran quantità di CO2, per la precisione il 37,5 per cento delle emissioni nazionali: nemmeno a dire, è la quota più alta tra i partner dell’Unione europea.

DOMANDE RETORICHE

 In molti Paesi gli allevatori stanno sollevando critiche pesanti contro i piani di Bruxelles, al punto che il Financial Times in un duro editoriale dichiara di condividere la loro protesta contro le cieche regole della transizione: «Perché Bruxelles ci odia?», domanda retoricamente il quotidiano inglese. Ovviamente non di odio si tratta, ma di scontro tra espressioni politiche in cerca di affermazione presso un elettorato che dichiara di condividere la battaglia per l’ambiente ma ragiona anche sulle conseguenze di norme troppo rigide, capaci di mandare in tilt il sistema a causa dei costi troppo alti imposti alle diverse filiere produttive. Anche in Italia il fronte è aperto e grande è la preoccupazione del mondo agroalimentare, impegnato a difendere i nostri prodotti di eccellenza. In Olanda la stretta proposta da Bruxelles, che vorrebbe paragonare l’inquinamento prodotto dagli allevamenti a quelli dell’industria, hanno provocato una dura reazione politica: il BoerBurgerBeweging, un partito che dichiara di muoversi in difesa di contadini e cittadini, ha ottenuto un risultato rilevante alle ultime elezioni provinciali contro le formazioni politiche guidate dal premier Mark Rutte e dal vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans, un autentico pasdaran dell’ambientalismo. Il segnale non è passato inosservato a Bruxelles, che chiede al settore agricolo di ridurre entro il 2030 i pesticidi del 50% e i fertilizzanti del 20% (gli ossidi di azoto che li contengono e gli escrementi animali hanno oggettivamente un peso importante). Inoltre, impone di dimezzare le vendite di antimicrobici per animali da allevamento a terra e in acquacoltura e di portare al 25% la quantità di terreno dedicato all’agricoltura biologica (nel 2020 era il 9,1%). In più gli allevamenti dovranno assumere una dimensione decisamente più grande, il che significa che si dovrà accentuare, costi quel che costi, il processo di aggregazione che, a causa delle nuove imposizioni, non potrà che avvenire a condizioni punitive per le aziende agricole destinate a essere assorbite.

CONSEGUENZE CATASTROFICHE

 Ma il passo che fa più discutere è dove al comparto zootecnico sono assimilate le normative che già si applicano all’industria. Un’idea dalle conseguenze catastrofiche semmai dovesse essere applicata alla lettera, tanto che la Commissione Agricoltura del Parlamento europeo ha votato contro questa equiparazione.

L’iter comunque non è concluso: ora si aspetta la valutazione della Commissione ambiente, che è quella competente sulla materia, e quindi il voto finale dell’assemblea. Come è facile intuire, nel mondo agroalimentare l’ansia cresce di giorno in giorno. Tale assimilazione è infatti una forzatura, di fronte a un irrigidimento delle posizioni potrebbe essere presa come pretesto per sviluppare un ragionamento sulla validità del sistema di regolamentazione europeo. Non va infatti dimenticato che la nascita dell’Europa unita è avvenuta proprio per rafforzare i settori agricolo e dell’acciaio: e questo servì a rilanciare l’economia del Vecchio Continente. Ma oggi la priorità non è più il quanto e la qualità di cosa si produce, ma il come, cioè con quale impatto sull’ambiente. In sintesi: oggi il futuro dello sviluppo economico in Europa viene definito dalla cornice del Green Deal più che dalla necessità di rispondere alla domanda di beni che si leva dai Paesi aderenti e di quelli necessari a competere sul mercato globale.

LA RICERCA DI SOLUZIONI

 Per questa ragione il settore agricolo si è dimostrato, non solo in Italia, così combattivo, proiettato com’è alla ricerca di soluzioni a monte, quali per esempio una modifica dell’alimentazione dei bovini in modo che producano meno emissioni responsabili dell’effetto serra. Senza contare che da anni sono in corso politiche per diminuire il consumo della carne nella dieta dei cittadini. Ed è nell’ambito di questa sfida che si è deciso di cercare alleati nel mondo scientifico, dove si va consolidando la convinzione che il metano proveniente dagli allevamenti, essendo “biogenico” (cioè proveniente dal bestiame) rimane nell’atmosfera per un tempo relativamente breve, circa 12 anni, e alla fine ritorna nell’atmosfera come CO2 trasformandosi in carbonio riciclato: presso l’University of California è una verità più volte certificata.

A MONTE E A VALLE

Dunque, non mancano le premesse per una regolamentazione diversa da quella proposta per l’industria, dove l’emissione di CO2 è collegata direttamente al modello di produzione e dipende dalla fonte energetica che viene utilizzata: non a caso gli sforzi vanno verso l’utilizzo di fonti sempre più “verdi”. Ma oltre alla ricerca di soluzioni a monte, c’è anche un gran lavorìo per individuare soluzioni a valle. A questo proposito, una delle tendenze più interessanti che si vanno sviluppando in campo industriale – però non praticabile in quello zootecnico – è l’utilizzo di impianti di cattura e stoccaggio della CO2, soprattutto nei settori hard to abate in Europa, in particolare in Italia e nel Regno Unito. Allo stesso modo, la ricerca di integrazione viene dall’economia circolare, che non è solo il riutilizzo degli scarti di produzione o dei rifiuti, ma l’opportunità di sviluppare sinergie, come quella fra agricoltura, energia e chimica per produrre più “molecole verdi”. Non a caso grandi gruppi a partecipazione statale come Eni e Snam sono scesi in prima linea con lo scopo di saldare la collaborazione, onde renderla più efficiente, con il mondo dell’agricoltura, dell’agroindustriale e delle multiutility.

LA CHIAVE DI VOLTA

 In conclusione, la partita della riduzione di emissioni coinvolge in maniera trasversale – pure se in modo differente – tutti i settori e ripropone all’Unione la sfida di come ridefinire l’allocazione delle risorse pubbliche, nel momento in cui il fattore ambientale è diventato la chiave di volta di del budget di ogni azienda europea. Ma appare sempre più chiaro che è impensabile una politica ambientale uguale per tutti i settori produttivi: una difficoltà in più che Bruxelles dovrà affrontare se contribuire a minare la tenuta dell’Unione. 

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