Moda, ancora polemiche: «Lo storytelling non basta»

Moda, ancora polemiche: «Lo storytelling non basta»
di Alessandra LUPO
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Domenica 23 Settembre 2018, 14:35 - Ultimo aggiornamento: 14:55

Vuoi per la tempistica particolarmente azzeccata, l'apertura della Milano Fashion Week, vuoi perché tocca un nervo scoperto del Mezzogiorno: l'economia e la difficoltà a superare la crisi. Ma di fatto continua a far discutere e parecchio l'inchiesta del New York Times sulla moda italiana e i suoi lati oscuri che graverebbero sulle spalle dei lavoratori (e soprattutto delle lavoratrici) sottopagati e senza diritti nella Puglia del turismo e della bellezza.
L'inchiesta del quotidiano americano, rimbalzata sui giornali italiani, ha provocato un coro di reazioni piuttosto compatte dal mondo della moda, colpito al cuore da accuse decisamente poco glamour.
Il primo a difendere il settore nonché la sua terra è stato Carlo Capasa (Ex Costume National e presidente della Camera della Moda) che lo ha definito un attacco demagogico, gli americani rosicano perché siamo sempre più bravi e avanti nella moda sostenibile. A fargli eco alcuni produttori locali tra i più noti passando per i grandi marchi (Max Mara, Prada) citati dal giornale che di fatto - forte di una serie di testimonianze anonime dirette - non ha avuto remore a schizzare di fango il green carpet della settimana della moda passando al contempo un colpo di spugna su decenni di lotta al sommerso e di progressiva specializzazione delle aziende di casa.
La Puglia e il Salento, insomma, si sono improvvisamente visti ricacciati nel quadro in bianco e nero del contoterzismo da fame che imperava tra gli anni 80 e i 90, quando, archiviate le grandi produzioni agricole, la manodopoera a basso costo aveva preso la via dei calzaturifici e delle maglierie.
Ma dove sta la verità?
Nei giorni scorsi nel coro dei no alle verità riportate dal quotidiano statunitense c'era Confindustria Taranto, che con il suo presidente Salvatore Toma, ha bollato come facile sensazionalismo il reportage sulle ombre del made in Puglia. Ma oggi sulla vicenda torna la Filctem Cgil di Taranto, tra le realtà citate dall'inchiesta e senza troppi giri di parole mette in guardia: «Dietro un bellissimo storytelling si possono nascondere storie di sfruttamento - avvisa Giordano Fumarola, segretario generale della categoria -. Per difendere le eccellenze locali occorre innanzitutto valorizzare e difendere il lavoro di chi permette il raggiungimento di tali punte qualità. È un concetto semplice, che nonostante la sua semplicità sembra non essere recepito abbastanza. Ci ritroviamo quindi, ciclicamente, a essere noi sindacato a distinguere il valore di un'azienda che punta sulla valorizzazione della propria esperienza da quello di un'azienda che ha ormai smesso di produrre, limitandosi a commercializzare, o al massimo, a strozzare i propri fornitori e i propri dipendenti».
Fumarola se la prende con il numero uno di onfindustira: «La risposta stizzita di Toma all'inchiesta del New York Times, che peraltro si concentra sul Salento e non sul Tarantino, ci sembra più il tentativo di difendere un ricordo di quello che è stato, piuttosto che le parole di chi conosce davvero la situazione. Siamo davanti all'ennesima negazione dell'evidenza, ad un nuovo tentativo di voler nascondere dietro lo storytelling di marchi di discreto successo, le storie del lavoro e dei lavoratori, sempre più precari, sempre più sfruttati da un sistema che a parte poche eccezioni, di cui siamo i primi a riconoscere i meriti, per il resto riproduce in maniera identica le stesse dinamiche: cercare lavoro al minor costo possibile, vendere col massimo del ricavo». «A Toma lanciamo l'ennesimo appello, sperando che faccia breccia per il bene del nostro territorio: valorizziamo le esperienze, difendiamo la nostra terra e i nostri lavoratori dallo sfruttamento, ma soprattutto mettiamo all'angolo le imprese che al collo dei lavoratori non appendono medaglie ma nodi scorsoi: se vuole davvero valorizzare le maestranze, facciamo in modo che le produzioni siano davvero etiche».
Lo stesso sindacato, però, fa i suoi distinguo: «Il problema esiste - spiegava ieri Franco Giancane, dalla Filctem Cgil di Lecce - basta fare un giro nelle imprese per accorgersene». E di fatto - al di là dei grandi marchi - il tessuto è fatto di imprenditori con varie esperienze e tra loro le storie di eccellenza non mancano. Per questo nei giorni scorsi anche uno degli illuminati come Luciano Barbetta (a capo dell'omonima casa di moda a Nardò) non ci stavano a vedere il duro lavoro di anni, oggi finalmente riconosciuto anche a livello internazionale, spazzato via.
Tuttavia, se il settore del lusso pretende standard elevati e il Durc in regola, vedi Hermès, Dior, Ferragamo, Gucci, Vuitton, Chanel e tutti i nomi dell'alta moda che negli ultimi anni hanno scelto la Puglia per le loro lavorazioni, il mercato resta ampio e i livelli della committenza e delle lavorazioni copre una gamma piuttosto ampia: non quella del low cost made in Bangladesh, Cina, India - Paesi a cui lo stesso NYT assimilava le condizioni di lavoro in Puglia - ma di certo tanto pret a porter, confezionato in aziende che anche negli ultimi tempi hanno dato non pochi pensieri, basti guardare il ricorso alla cassa Integrazione a Martina Franca.

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