Ilva, la sfida di Mittal: ambiente e un punto di Pil annuo

Ilva, la sfida di Mittal: ambiente e un punto di Pil annuo
di Francesco G.GIOFFREDI
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Venerdì 7 Settembre 2018, 18:17 - Ultimo aggiornamento: 18:52

Strategica per l’industria manifatturiera italiana, nevralgica per l’export. E il più possibile pulita, rispettosa di ambiente e salute. È una sfida, forse una scommessa, di certo intorno al dossier Ilva si parla il linguaggio del rilancio, si declina finalmente il lessico delle ambizioni. A tutto tondo: lavoro e salubrità dell’aria, salari e polmoni. È un inizio, non è poco. Il tempo racconterà se e come Taranto celebrerà il riscatto, ergendosi magari a modello. Qui e ora spicca un dato, che torreggia in cima al dossier ed è stato un primo motore delle scelte del governo gialloverde: la siderurgia jonica è un pezzo, non marginale, di Pil del Paese. La Svimez spiega che il piano ArcelorMittal renderà l’Ilva un driver di sviluppo capace di attivare 3,1 miliardi annui di Prodotto interno lordo, pari a un punto percentuale. Non solo: dal 2013 al 2017 - negli anni della crisi del polo jonico, delle incertezze, dei decreti, del futuro rabberciato e indecifrabile - l’Italia ha perduto 16 miliardi di Pil proprio a causa del calo produttivo dell’Ilva. Non sono gli unici numeri che gravitano attorno a Taranto e al comparto dell’acciaio italiano, perno di quel manifatturiero architrave del sistema-Paese: ci torniamo a breve. Ma queste prime pillole numeriche, un dibattito politico che dal 2012 (anno del sequestro) ad oggi ha seguito traiettorie discutibili (se non del tutto fallimentari) e l’intricato nodo ambiente-salute dicono che l’Ilva è il caso emblematico delle falle “sistemiche” italiane. Stratificate negli anni, frutto di colpe collettive.
Volti nuovi al governo, ma sintassi in fondo antica: i ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente hanno passato al setaccio le 23mila pagine del dossier e l’addendum di Mittal, intavolando serrate trattative poi sfociate nell’intesa. Luigi Di Maio si è “calendizzato” - se è consentita una vena d’ironia: dopo aver ventilato la chiusura del polo tarantino e minacciato il reset dell’aggiudicazione a Mittal, il ministro dello Sviluppo economico è ripartito dalla base d’accordo apparecchiato da Carlo Calenda, il predecessore. E su quella base ha lodevolmente innestato condizioni al rialzo, sia per i livelli occupazionali, che per i parametri d’ambientalizzazione, poi affiancandoci anche il cadeau di una legge speciale per Taranto tutta da scrivere. Insomma: per la furia abbatti-tutto c’è tempo, forse più in là o forse no. Senza dubbio però il dossier Ilva è stato il primo, vero banco di prova per il vicepremier, pur restando comunque un campo parecchio minato per i cinque stelle (la base tarantina già insorge). D’ora in poi sarà un gioco a tre sponde: ArcelorMittal dovrà attenersi alle condizioni dell’accordo faticosamente stilato e scommettere per davvero su Taranto; al governo e ai sindacati spetta il compito di vigilare e incalzare. Soprattutto l’esecutivo sarà chiamato a muoversi a rastrelliera, senza trascurare alcun aspetto, a cominciare dal capitolo ambientale. Il menu prevede riduzione del 15% delle emissioni stabili anche in caso di over-produzione oltre i 6 milioni di tonnellate; il 15% di anidride carbonica in meno per ogni tonnellata di acciaio liquido prodotto entro il 2023, abbattendo del 30 e del 50% polveri e diossine; accelerazione dei lavori di copertura dei parchi, con deadline al 2019 e fissazione anche dei tempi intermedi; impegno sulla ricerca; prestazioni ambientali conformi alla normativa ambientale italiana ed europea; impegno (vago) a sperimentare le tecnologie a basso contenuto di carbone. Basterà? Guardia alta e massimo rigore, in ogni caso. Sul piatto ArcelorMittal mette 2,4 miliardi di euro, per piano industriale e ambientale. La prospettiva della decarbonizzazione, invocata da Michele Emiliano, è opzione sullo sfondo: si vedrà, potrebbe essere la fase 4.0 del rilancio.
Se Di Maio ha accantonato - per ora - ogni suggestione sullo spegnimento dell’Ilva, è perché ha dovuto vedersela con numeri accennati, materia testarda. Il professore Federico Pirro dell’Università di Bari lo ricorda appena può: l’Ilva resta comunque «la più grande fabbrica manifatturiera del Paese per numero di addetti», ed è peraltro il maggior stabilimento siderurgico singolo in Europa per capacità produttiva (oltre 10 milioni di tonnellate annue: Mittal resterà sui 6 milioni, con estensione massima a 8). E poi: tra coils, laminati e via elencando, l’Ilva è un player cruciale per tutta la metalmeccanica italiana, e quest’ultima incide per il 52% sulle esportazioni del Paese. Intanto, la riduzione della produzione tarantina ha ampliato il divario tra l’offerta e la domanda di prodotti siderurgici, e così i clienti italiani sono stati costretti ad approvvigionarsi all’estero. Segnala infatti la Svimez che tra il 2013 e il 2017 l’import d’acciaio è lievitato di quasi 3 miliardi di euro. Non è l’unico effetto innescato dalla crisi Ilva: detto già della ricaduta negativa sul Pil, il colpo è stato ovviamente esiziale anche sull’export, nell’ordine dei 7 miliardi tra 2013 e 2017. Il settore italiano dell’acciaio attualmente sviluppa un giro d’affari di circa 35 miliardi di euro, l’Italia resta il secondo produttore europeo (dietro la Germania), ma importiamo 12 milioni di tonnellate d’acciaio: troppi, secondo gli analisti.
Altro? Sì: sempre Pirro ricorda che «il rifornimento di materie prime per la produzione dell’impianto di Taranto e il trasferimento dei semilavorati al polo di Genova alimentano le movimentazioni dei porti dei due capoluoghi, così come il trasporto su gomma. E andrebbe stimato anche l’impatto allargato generato dai salari».
Si diceva dell’effetto moltiplicatore sul Pil sospinto dal piano ArcelorMittal. «Nel periodo di attuazione del piano industriale (2018-2023) - si legge in un recente studio della Svimez - il Pil complessivamente attivato dalla produzione realizzata nel sito di Taranto e negli altri due del Nord è pari a circa 3,1 miliardi di euro all’anno; ovvero quasi 19 miliardi di euro nell’intero arco temporale coperto dal piano industriale. Per avere un termine di paragone, si tratta nel complesso di oltre un punto percentuale di Pil, più di una media manovra finanziaria». Ma soprattutto: oltre il 70% del Pil aggiuntivo stimolato sarà localizzato in Puglia.
Si badi: non tutto è risolto, anzi, Taranto pretende risposte, segnali forti, certezze, salute e siamo appena all’inizio.

Ma, appunto, è un inizio. Da non sprecare, ancora una volta.

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