Visti da (molto) vicino/ Conte
raccontato da Garzya:
«Noi, ragazzi terribili»

Visti da (molto) vicino/ Conte raccontato da Garzya: «Noi, ragazzi terribili»
di Rosario TORNESELLO
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Domenica 8 Dicembre 2013, 18:10 - Ultimo aggiornamento: 22 Dicembre, 18:15
LECCE - Che poi, d’accordo, non come dire Zoff-Gentile-Cabrini eccetera, tutto d’un fiato a valanga fino a Rossi-Platini-Boniek, scorrendo volti e immagini, preghiera laica di chi ama il calcio e perci la vita. E poi ricominciare, daccapo; perché non pare vero. Mai. Ogni nome una pausa, ogni pausa un ricordo. E che colpo, che colpo, quando arrivi al 6 e lì ti sobbalza il cuore: Scirea. Anche chi non era e non è di fede bianconera, ché anzi quei nomi li avrebbe voluti - eccome se li avrebbe voluti - tra i suoi. Tra i suoi eroi. E forse pure gli altri, soprattutto loro: quelli che il calcio non sia mai, per carità, baraonda malconcia di energumeni al servizio di folle esagitate, vuoto a perdere su prati sbiaditi da scandali e idiozie, che anche i ragazzini ormai, mammamia, quando montano in curva smoccolano come e peggio dei grandi, e dei papà per cominciare, che il buon esempio eccetera. Quelli che vabbè, Dino era Dino, un signore, e un signor portiere, pure se Haan lo impallinava da 40 metri e addio sogni di gloria argentini. Quelli (anzi: quelle, va’) che il bell’Antonio... Ecco, il bell’Antonio: loro, se lui fosse sceso dal poster... lasciamo perdere.



D’accordo, non è come recitare una poesia di formazione. Ma qui, quando quelli negli anni ’80 facevano scintille in Italia e sfracelli negli stadi del mondo intero, qui, nelle giovanili del Lecce e su su fino agli esordi in A, nell’Olimpo appena conquistato, qui cresceva una banda terribile di ragazzini, dentro e fuori dal campo, e grazie al cielo sempre più dentro e sempre meno fuori, ragazzini e poi uomini, fino a diventare Morello, Moriero, Petrachi, Garzya, Conte, parole e musica di un’altra storia, di un altro tempo. Che non torna. E per ora non tornerà.

Conte. Che sognava (e disegnava) Roberto Bettega quando - ancora piccolo - alzava polvere sulla distesa del “Carlo Pranzo”, sotto le mura di Lecce, nella Juventina di papà Cosimino. Il “Pranzo” è rimasto sterrato: non crescono più sogni, ma in primavera sbocciano margherite. E comunque per sicurezza ci hanno fatto sopra un parcheggio. Occupare gli spazi è espressione che ognuno declina secondo circostanza. Lui, invece, è di nuovo in vetta con la Juve. Una storia di ritorni, la sua. Felici. Mancati. Dolorosi. Travolgenti. Laceranti. A seconda. Ma ora è lì, in cima (e con lui un pezzo di Lecce: lo diciamo? non lo diciamo? intanto lo scriviamo).



Comunque vada oggi in campionato, passerà l’Immacolata in felice e solitaria fuga al comando della A. Il successo di venerdì a Bologna blinda il primato. «Non c’erano dubbi: Antonio è un vincente. Un vincente nato. Perché ha una dote rara, al di là della preparazione: ha carisma. Gli basta lo sguardo», racconta Luigi Garzya.

Gigi è un altro della banda terribile. Sono cresciuti assieme nei piccoli del Lecce: Antonio arrivava dalla Juventina, Gigi dal Lecce Club. Un’amicizia rimasta intatta, cementata dai ricordi, temprata dalle avventure. Immortalata dalle immagini delle imprese sui rettangoli di gioco. Le giovanili, la Primavera, gli esordi nella massima serie, con la squadra del cuore, nel campionato 1985-1986. Il Lecce. Certo, il Lecce. Il giallorosso che ritorna a cicli a intersecare la strada di Conte. Tra due giorni sotto mentite spoglie: a Istanbul, nella sfida decisiva per la marcia in Champions, lo attende il Galatasaray. Ma il giallorosso che ancora fa male è l’altro. Quello d’origine. Ci ritorneremo. Nella gioia e nel dolore, unisce i due amici.



«Si vedeva già da ragazzino che aveva qualcosa in più - ricorda Garzya -. Sono doti naturali. E servono per farsi rispettare. Puoi essere bravissimo. Ma se non ti fai seguire, e non hai carisma, perdi la squadra dalle mani. Lui no. Non è semplice gestire un gruppo come quello della Juve, che poi vuol dire per lo più calciatori da nazionale. I giocatori ti rispettano se vedono in te un mister competente e una guida. Antonio è l’una e l’altra cosa assieme». Hanno lasciato entrambi Lecce nel 1991. Antonio a Torino. Gigi alla Roma e da lì altrove. Ora anche lui fa l’allenatore. Prime esperienze accanto a Checco Moriero, come vice. Da quest’anno segue la Primavera del Trapani. Un pensierino allo staff del suo ex compagno lo fa. Inevitabile.



«Lavorare con Antonio è il sogno di tutti.
Si impara moltissimo. Lui ha una cura maniacale dei dettagli. Ed esige un rispetto rigoroso delle regole. Rivedo gli anni passati accanto, da piccoli. A Lecce abbiamo avuto la fortuna di essere forgiati come uomini e come calciatori. Lillino Caus, Carlo Mugo. E poi Ciccio Cartisano: persone incredibili, e perciò rare. Quante ne abbiamo combinate in quegli anni... Una banda, sul serio. In campo e fuori. Quante battaglie, sul terreno di gioco e non solo. Figli di buona donna: eravamo ragazzi, una voglia sfrenata di giocare e di divertirci. Uno spettacolo. Ci ha salvati l’intelligenza. E l’educazione, che ci ha portati a non travalicare mai certi limiti. Non come le nuove leve di oggi: anarchia totale. Noi sapevamo quali fossero i nostri paletti. Ma certe volte...». Un aneddoto per tutti: «Eravamo in Sicilia con la Primavera: doppia trasferta, Catania e Palermo. Ci portano in un villaggio turistico. Con piscina. Roba da non resistere, nonostante i divieti. E infatti anche Antonio si tuffa. Non l’avesse fatto. Ci sorprende il mister e sbotta: “Nooo, anche Conte. Se si è tuffato pure lui allora è proprio finita...”. Che periodo, però».



Conte e Garzya sono rimasti amici.
L’ultima volta si sono visti a Lecce dieci giorni fa. La Juve inseguiva la Roma. Lui era stanco. «Coppa, Champions, campionato. Antonio si rilassa solo quando è con gli amici. Un ragazzo normale. Rigoroso e attento, anche alla dieta. Ma quando è con noi sgarra: allora è un tripudio di antipasti, un trionfo di dolci. Ne va matto. Golosissimo. Pasticciotti inclusi. Come me». Crema e pasta frolla in vena. Leccesi purosangue. E il punto è proprio questo. Gigi prova a ragionarci su: «Non capisco l’atteggiamento della tifoseria giallorossa verso Antonio: uno così dovrebbe essere l’orgoglio della città. Invece gli fanno pagare l’esultanza per una sua rete a Torino proprio contro il Lecce. Forse anche io avrei fatto come lui: rientrava da un lungo infortunio, brutto da far temere per la carriera. Quel gol fu una liberazione. E poi il derby vinto sulla panchina del Bari. Lo stesso calvario che è toccato a me, che ho giocato con i biancorossi e ne sono stato anche il capitano. Io e Antonio abbiamo sempre svolto fino in fondo il nostro dovere, ovunque fossimo. Quando si indossa una maglia alla squadra si dà tutto, anima e corpo. Ma il cuore, quello che c’entra? Lecce te la porti dentro dovunque. Perché è tanto difficile capirlo?».



Ogni stagione ha i suoi eroi, ogni latitudine i suoi simboli. Ogni ferita i suoi tempi di guarigione. E ogni storia i suoi nomi, patrimonio di tutti. Come Zoff, Gentile, Cabrini... Come Moriero, Conte, Garzya... Forza Lecce? «Sempre - saluta Gigi -. Forza Lecce. Sempre».
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