L'intervista/Viesti: «Sud, vent’anni di divari aumentati. La chiave è nella storia. E la via d’uscita c’è»

L'intervista/Viesti: «Sud, vent’anni di divari aumentati. La chiave è nella storia. E la via d’uscita c’è»
di Francesco G. GIOFFREDI
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Domenica 16 Maggio 2021, 06:21 - Ultimo aggiornamento: 14:45

Il plurale è d’obbligo perché è la forma della complessità. Divari, centri, periferie. E ancora: il Novecento e il nuovo Millennio, l’Italia e l’Europa, le fratture territoriali. E il Sud che appare condannato a una marginalità irreversibile, intrappolato in uno “sviluppo intermedio” senza identità e senza forza motrice. L’analisi allora non può che essere multidimensionale. Gianfranco Viesti è economista impegnato da sempre sulla prima linea del dibattito sul Mezzogiorno, «Centri e periferie: Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo» è il suo ultimo, accurato libro. Professore di Economia applicata all’Università di Bari, Viesti rilegge l’ultimo ventennio, caratterizzato dall’accentuarsi di polarizzazioni e scompensi. E lo fa indagando le matrici storiche e geopolitiche dei divari. Tre flash: la perifericità non è una condanna, le disuguaglianze sono aumentate e il driver principale per rompere l’inerzia non possono che essere «più incisive politiche pubbliche».
Professore, il quadro degli ultimi vent’anni e i divari Nord-Sud e centri-periferie hanno radici lontane e diversificate. E allora, nel tentativo di accorciare quei gap, manca proprio il difficile esercizio storico?
«La situazione attuale può essere colta solo ripercorrendo le radici dei divari, che risalgono principalmente alla prima metà del ‘900, quando in Italia si sono verificate dinamiche diverse rispetto ad altri Paesi europei. È bene prestare comunque un’attenzione particolare a ciò che è accaduto dalla fine del secolo scorso ad oggi: ci sono stati cambiamenti dello scenario internazionale che hanno reso il quadro d’insieme più complesso e hanno accentuato fenomeni di polarizzazione».
Insomma: la cesura si è approfondita ancora di più.
«Si sono approfondite alcune distanze, sì, in Italia e in Europa, anche all’interno di stesse aree. E sono emerse nuove differenze. Per esempio, il baricentro produttivo europeo si è spostato verso nord-est».
È uno dei tre assi portanti dell’analisi: questa dinamica ha contribuito a svuotare di centralità strategica il bacino mediterraneo, l’Italia e il Mezzogiorno.
«Lo spostamento del baricentro ha prodotto uno choc molto forte su tutta l’Europa e in particolare sull’Italia, alla luce del suo modello produttivo di specializzazione settoriale e della concorrenza di produzioni più a buon mercato. Il consolidarsi di quest’area produttiva centro-europea ha esercitato una concorrenza molto forte».
Secondo punto: le performance modeste dell’Italia, e del Sud in particolare, accresciute dall’incapacità di creare nuove attività a valore aggiunto. Forse è questo il vero cortocircuito, ma determinato da cosa?
«La patologia dell’Italia e del Sud non è tanto aver perso alcune produzioni, ma non averne create di nuove, generando posti di lavoro a maggior qualifica in grado di sostituire quelli che si andavano perdendo nella competizione internazionale. Il mondo è cambiato e l’Italia è rimasta uguale a se stessa. L’Italia era ed è una potenza industriale, ma il suo modello di capitalismo si è rivelato meno adatto a questo secolo».
Terzo elemento: la scarsa o inefficace propensione all’investimento pubblico. Lei parla di «manutenzione dell’esistente» senza capacità di immaginare un futuro diverso.
«Proprio quando servivano politiche di sviluppo, il Paese si è piantato, incapace di mettere in atto politiche per accompagnare le trasformazioni. Le attività di mercato devono essere accompagnate da politiche pubbliche adeguate con funzione “abilitante”».
Il solco Nord-Sud si è approfondito nei primi 50 anni del 900, poi è arrivata la politica dell’intervento straordinario, seguita dall’improvvisa battuta d’arresto già negli anni ‘70. Qual è stato il momento di rottura? 
«Dopo il grande choc degli anni ‘90 l’obiettivo di potenziamento del Sud è diventato assolutamente marginale nel dibattito pubblico. Tutto ciò si è tradotto in politiche insufficienti per attrezzare meglio il Mezzogiorno nella competizione internazionale. Insomma, la visione di trasformazione del Sud grazie alle politiche pubbliche si è completamente appannata».
Problema, banalmente, di risorse finanziarie?
«Non solo, anche di regole e specifiche politiche. Nel libro si ripercorrono le politiche sanitarie e universitarie, campi rilevanti in cui è stata applicata la “austerità asimmetrica”, cioè un indirizzo politico che ha fatto pagare la crisi italiana soprattutto al Sud, concentrando le poche risorse disponibili nelle aree più forti del Paese».
Il Sud smette di essere un mercato di sbocco, una riserva demografica e un’area per insediamenti strategici. Arretra pure lo “Stato imprenditore”, ma non emerge un’adeguata classe dirigente e imprenditoriale. Perché?
«Ma la classe imprenditoriale è il frutto delle condizioni di contesto. Noi, in fondo, abbiamo conservato una parte non piccola delle imprese, il Mezzogiorno non è un deserto. Ma non abbiamo conosciuto un vero e proprio processo di sviluppo, proprio per le condizioni oggettive. E ci sono persino segmenti cresciuti: energia, agricoltura, turismo. Ma è illusorio fare affidamento sulle capacità di reazione di mercato se non ci sono le condizioni strutturali favorevoli».
La storia però insegna che l’intervento pubblico non sempre ha centrato il bersaglio al Sud. Anzi. E altrove le cose sono andate diversamente, si pensi al gap ricucito in poco tempo tra Germania Ovest ed Est.
«In Germania è stato fatto di più e meglio. Ma è una polemica pretestuosa, che arriva da settori contrari all’intervento pubblico di per sé. Si parla tanto dei fondi europei, che sono tuttavia una parte piccolo dell’intervento pubblico: quella maggioritaria sono le politiche su istruzione, salute, servizi nelle aree urbane, su cui si è fatto pochissimo. Anzi: negli ultimi 20 anni i divari non si sono certo ridotti come accadeva nella seconda metà del ‘900».
L’arco di tempo è sufficiente: la politica di coesione europea ha fallito?
«No, ma i risultati sono modesti. Un problema di quantità, perché le risorse europee hanno sostituito quelle nazionali al Sud. E anche di qualità, con l’eccessiva frammentazione della spesa per ragioni di consenso politico».
Ecco, da sempre allora non è solo questione di investimenti pubblici, ma anche di qualità della classe dirigente e di deficit di cultura civica al Sud.
«Ma se, per esempio, non ci sono i collegamenti ferroviari al Sud, il problema è semplicemente di indirizzi politici dati al gruppo Ferrovie dello Stato. Il problema della qualità delle classi dirigenti è ambivalente; è un tema serio, ma usato molto come schermo dietro il quale nascondere tutto il resto. Un altro esempio: negli anni ‘90 la Murgia e Matera erano ritenute aree di impiego pubblico, successivamente sono state attraversate da fenomeni di sviluppo colossali, con una mobilitazione che nulla aveva da invidiare a quella della Lombardia degli anni ‘60. E questo perché lo consentivano le condizioni strutturali».
Lei insiste molto sulla trappola dello “sviluppo intermedio” del Sud: meno competitivo dell’Est europeo sul piano dei costi e meno competitivo del Nord sotto il profilo dell’innovazione. Risultato: il Sud è privo di visione, identità industriale, proiezione futura.
«È una condizione non solo del Mezzogiorno, ma anche di altre periferie. L’Italia deve scegliere la strada della Germania, non della Romania: deve puntare su istruzione e ricerca competere sulla qualità dei prodotti, dei servizi e delle persone».
Il libro ripercorre anche tappe ed evoluzione del regionalismo. Il dibattito è una biglia impazzita tra due sponde opposte: più accentramento o maggiori poteri e competenze alle Regioni. La pandemia è stata un piccolo saggio. Ma la giusta misura qual è?
«La soluzione non è semplice. Sono sbagliate le tentazioni neo-centraliste, ma anche la retorica sulle Regioni è negativa e pericolosa. Occorre equilibrio, non solo giuridico, ma soprattutto politico: le Regioni, in particolare al Sud, sono repubbliche indipendenti politicamente, con estremi di personalizzazione. Una sorta di sovranismo regionale, legato anche allo spappolamento dei partiti incapaci di riannodare periferie e centro, e nel quale i governatori giocano per sé».
La pandemia ha accentuato divari e polarizzazioni. Un processo irreversibile? O ha offerto anche delle opportunità per ripensare welfare, sanità, digitalizzazione?
«Non è irreversibile, ma è una bella battaglia. Le condizioni strutturali sono molto difficili, ma cambiano. Mai alzare bandiera bianca. La pandemia è un grande acceleratore, tanto di problemi quanto di svolte: dipende molto da come ne usciamo psicologicamente, se ripiegati o con grande voglia di ricostruire come nel ‘46. Ma è qui che subentra la politica».
In ultimo: il Recovery plan va nella direzione dell’intervento pubblico e del cambio di paradigma da lei auspicati?
«Per il momento solo in parte, dipenderà moltissimo dall’attuazione concreta. È una scatola ancora da riempire di tanti contenuti».

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