Vamba, il Gian Burrasca che non sapeva mentire

Vamba, il Gian Burrasca che non sapeva mentire
di Anita PRETI
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Lunedì 17 Agosto 2020, 13:11
Il colore verde. Qualsiasi bibliofilo sa che, nel mondo dei libri, una sola copertina è sempre verde da quando, nel 1912, è stato pubblicato Il giornalino di Gian Burrasca scritto da Vamba, del quale a novembre ricorre l'anniversario, un secolo, della scomparsa. La prima edizione del Giornalino, edito da Bemporad, è introvabile quindi più che rara mentre un'edizione degli anni Venti, la prima che si incontra sul mercato dell'antiquariato librario, viene stimata circa centoventi euro.

I bambini di fine Ottocento leggevano le avventure del discolo Giannino Stoppani, giustamente detto Gian Burrasca, per pochi centesimi perché tanto costava una copia de Il Giornalino della domenica che i grandi di casa acquistavano per loro in edicola. Il lungo racconto delle monellerie di Giannino appariva infatti a puntate sul periodico che Vamba aveva creato. Solo più tardi le avventure, apparse tra il 1907 e il 1908, furono raccolte in un volume mandato alle stampe da Bemporad, l'editore di riferimento per Collodi e più avanti per Verga e D'Annunzio. Ma l'erede della casa fiorentina doveva avere un buon fiuto se nel suo catalogo annette, uno dopo l'altro, Pinocchio, La scienza in cucina di Pellegrino Artusi e Il giornalino di Gian Burrasca di Vamba.
Si è soliti dire che questi tre libri, con pochissimi altri, abbiano fatto l'Italia o ridimensionando il giudizio abbiano contribuito a formare il carattere degli italiani. Certi assiomi, consumati nello scorrere dei giorni i secoli, restano tali e ancora validi: Ho pensato di farvi vedere molte cose grandi negli esseri piccoli Più tardi nel mondo vedrete molte cose piccole negli esseri grandi.

Questa frase sgorgata dalla penna di Vamba non è contenuta nel Giornalino bensì, con la stessa serietà d'intenti, la ricerca della verità costi quel che costi, in Ciondolino un altro libro dello scrittore toscano che si può considerare l'atto preparatorio a quel capolavoro che è il diario di Giannino Stoppani.
Tutto nasce da lì, da quel regalo che la mamma fa a Giannino nel giorno del suo compleanno, il 20 settembre: un diario. Gradito, atteso, gli servirà per scrivere le sue memorie come vede fare ogni giorno alla sorella maggiore Ada. Singolare bambino, questo Gian, che preferisce questo dono agli altri ricevuti: una pistola giocattolo, una canna da pesca, un astuccio con un magnifico lapis rosso e blù, un vestito a quadrettini. Tenerlo a mente l'abituccio (di questo non me ne importa nulla, perché non è un balocco, scrive nella prima pagina del suo diario Giannino, elencando i regali ricevuti), tenerlo bene a mente perché, ridisegnato da quel mago che era Piero Tosi, sarà indossato dal Gian Burrasca televisivo ovvero da Rita Pavone nello sceneggiato televisivo del 1964. Che si rivelerà, già al termine della prima delle otto puntate, un successo clamoroso con tutta l'Italia a cantare Viva la pappa col pomodoro.

Ecco, per avere idea delle monellerie di Stoppani, quella pappa arriva sul desco del collegio dove è stato prudentemente spedito, dopo una rivolta collettiva da lui ben organizzata. Atto finale: annaffiare con il petrolio le scorte di riso (usate per la sbobba quotidiana) conservate in dispensa. Innocenti evasioni dinanzi alle eversioni che la società avrebbe poi accettato e tollerato. Contro questa società già pullulanti e di ipocriti e di pavidi - oltre che contro la propria famiglia, suo primo bersaglio - si indirizza l'ira di Gian Burrasca. La presa di Roma nel 1870 (data segnata sul calendario di Giannino e riportata nella prima pagina del libro) annette la futura capitale al progetto Italia ma non certifica l'Unità. Clericali e socialisti, bigotti e miscredenti di quella Nazione nascente fanno capolino tra le pagine e il monellaccio stigmatizza i loro comportamenti. Ma è lui o Vamba a farlo? La domanda è retorica.

Se Vamba esistesse ancora scriverebbe sulle pagine del Vernacoliere, il salace mensile livornese; se fosse vissuto tra i Settanta e gli Ottanta avrebbe scritto su Il Male di Zac e Vincino, o sul Cuore di Serra e Sabelli Fioretti. Luigi Bertelli, l'autore del Giornalino, era più discolo del suo Giannino. Tanto per cominciare aveva scelto come pseudonimo, Vamba, il nome proprio di un personaggio nato dal letterato inglese Walter Scott: Wamba, il fool, il giullare di Cedric, padre Ivanohe. Ed è risaputo che i giullari non la mandano a dire. Bertelli aveva tenuto a freno irruenza e lingua finché era stato un diligente impiegato delle Ferrovie e pur con l'ambizione di fare della scrittura la sua ragione di vita, si era limitato ad amene trattazioni del tipo: Guida teorico-pratica per i funzionari di p.s. per i sindaci e segretari comunali e per gli aspiranti alla carriera di p.s. pubblicata nel 1876. Altri esercizi non si spingevano oltre i panegirici per il primo re d'Italia, Vittorio Emanuele II.

Ma quando gli argini, invano trattenuti, cedono Luigi Vamba Bertelli ingrana la marcia e punta sulla letteratura per i più piccoli in varie forme: Ciondolino, il primo romanzo; Il giornalino di Gian Burrasca; Novelle lunghe per ragazzi che non si contentano mai; I figli d'Italia si chiaman Balilla. Scrive con Giuseppe Fanciulli, che è stato un suo redattore al tempo de Il giornalino della domenica. Poi, non essendo un reato fare il Giano bifronte, coltiva su altri versanti la sua inarrestabile perfidia verbale. L'onorevole Qualunqui e i suoi ultimi diciotto mesi di vita parlamentare sembra voler anticipare il Cetto La qualunque di Antonio Albanese. Altri testi e altri versi sfiorano quel modo di fare e di dire che viene definito sbracato. Lo scrittore attraversa senza farsene toccare la tempesta del nascente fascismo, fende la nuvola di A bad boy's diary, un testo americano che va per la maggiore.

Il Giornalino è un'altra cosa e prima ancora che Bertelli scompaia il 27 novembre 1920 a Firenze (la città dove era nato nel 1858), la fama è consacrata. Uno scrittore importante, arguto ma non leggero, Giorgio Manganelli dirà che non aver letto a tempo debito Il Giornalino è pari, per il suo organismo, alla carenza di un intero alfabeto di vitamine. Toccherà a una bambina terribile che insiste con la Rai nel suo progetto, Lina Wertmuller, il compito di trasferire dalla carta alle immagini la vicenda di quel piccolo rompiballe di Stoppani. Nasce nel 1964 la versione televisiva: sua la regia, scene e costumi di Piero Tosi, musiche di Nino Rota, sul podio Luis Bacalov. Interpreti: Pavone, Tofano, Valeri, Foà, Vukotic, Merlini, Garrani. Uno squadrone, come in campo non se ne vedono più. Ma per Gian Burrasca, questo e altro. Grande il suo merito: dice sempre la verità.
 
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