Pier Vittorio Tondelli e il volto rock della Lecce anni Ottanta

Pier Vittorio Tondelli e il volto rock della Lecce anni Ottanta
di Fanny BORTONE
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Mercoledì 16 Dicembre 2020, 09:43

Ci sono nomi che resteranno per sempre nella storia poiché di quest'ultima sono, essi stessi, parte complementare. Pittori, autori, poeti, fisici, scienziati; nomi grandi, spesso abusati; nomi altisonanti, nomi ricorrenti. Eppure, tra i nomi dei grandi e le loro immense storie da raccontare, c'è qualcosa di straordinariamente intrigante nell'immergersi nell'abisso dei ricordi non comuni, di quei giorni da ricercare nel vasto e semplice patrimonio della normalità. Scavare, andare oltre biografie superficiali e scarne per raggiungere la profondità di una vita che spesso passa alla storia dimenticando gran parte di ciò che si è realmente vissuto; solo così riusciremo a comprendere la vera storia di un viaggio che non ha come obiettivo l'arrivo bensì il piacere unico della strada.


Come quella volta in cui, transitando senza meta da Nord a Sud Italia, Pier Vittorio Tondelli arrivò nel 1986 proprio a Lecce: Sud del Sud. Appena poco più di due facciate animano una descrizione frizzante del capoluogo salentino inserita nella sezione Fauna d'arte di un Weekend post-moderno, cronache dagli anni Ottanta. L'impressione è quella di una vita on the road consumata in pub, discoteche e bagni notturni fra l'Adriatico e lo Ionio sotto un grande cielo meridionale sfavillante in ogni sua luce, così Tondelli definisce il suo arrivo in Salento.


Rileggendo oggi le pagine dello scrittore emiliano un senso di piacevole allegria domina lo sguardo che scorre veloce alla ricerca di punti di convergenza con la realtà odierna.
C'è il volto rock di quella Lecce che forse, in realtà, non esiste più ma che vive nello spirito di figure che hanno portato la modernità in provincia: Toni Robertini, Luigi Lezzi, Stefania Miscuglio. L'analisi di una movida che si sposta di piazza in piazza, che cambia bar a seconda delle ore, che prende la propria auto per percorrere appena pochi metri: ci sembra di riconoscerci in tutto. Leggiamo della bellezza dei paesi che orbitano intorno al tufo leccese, dei piccoli campanili illuminati alla sera e delle osterie vicino al mare dove il tempo passa in un battito di ciglia. E poi ancora l'incontro con un collaboratore dello storico giornale leccese, il Quotidiano, e quella riflessione sulle iniziative cittadine nate per opera di chi è andato altrove e ha scelto di tornare in città portando scambio culturale, apertura, innovazione.


È una Lecce in festa quella di cui ci parla Tondelli. Una città impegnata in progetti e ambizioni culturali di ogni genere; una città che ama il teatro, l'arte, la fotografia e lo sperimentalismo.
Sono i grandi anni Ottanta, un tempo novus in cui non è nell'arrivo a destinazione che ci rincontreremo ma nell'idea stessa di viaggiare. Auto, vecchi treni, passaggi da cogliere al volo sulle autostrade nebbiose d'Emilia e poi sempre più giù fino alle coste Salento, vivendo giorno dopo giorno ciò che il presente ha da riservare.
Dalla sangria bevuta a piazza Farnese in un pomeriggio di fine estate a Roma passando per i salotti di Firenze, Napoli, Lecce sino alla scelta di tornare a Correggio: città natale dello scrittore.

C'è un senso d'irrequietezza persistente e comune negli scritti di Tondelli. La necessità di andare scontra la consapevolezza che ogni viaggio trovi la sua reale motivazione solo se rapportato ad un ritorno, anche lontano nel tempo.


Sentiamo dunque la voglia irrefrenabile di partire, vivere, raccontare. L'estetismo immenso d'un viaggio che non necessita il superamento materiale di confini nazionali per trovare in essi la sua prima ragion d'essere. Il viaggio, come dall'autore viene inteso, coniuga la sua più grande e genuina espressione nel mezzo attraverso cui esso stesso avviene. Il tutto si racchiude nel sogno dell'altrove, nell'andare inteso come fuga verace verso l'immensa e generosa plausibilità del futuro. Il lascito della beat generation e ci spinge a credere ora dopo ora nelle mille possibilità del potenziale, dell'incerto, del domani. Ci basta questo: il vagone affollato di un treno Bologna-Firenze, storie di gente comune come colonna sonora della nostra partenza e il presentimento che il domani sia già qui e non vi sia più tempo da poter perdere.


Ma c'è anche e soprattutto una grande riflessione sulla condizione umana di coloro che nel viaggio, così come in tutto ciò che esso comporta, si sono riconosciuti trovando la propria strada. Libertà e solitudine, storie che incrociamo, amori che perdiamo nella speranza che il futuro possa sorprenderci ancor di più del presente che stiamo vivendo. Una seduzione passionale e sconfinata ci muove vorticosamente oltre limiti dell'altrove.
La domanda non è cosa ci riserverà il futuro, ma cosa potremmo incontrare nel correre oltre il presente. Eppure, forse, è proprio qui che si racchiude il segreto: non sapremo mai dire dove stiamo andando né avremo la certezza che la scelta presa sia stata giusta o sbagliata, semplicemente partiamo.


Nell'ultimo suo romanzo, Camere separate, l'autore lascia intendere come ad ogni esistenza sia riservato un tempo per andare ed uno per restare: non ci è dato conoscere l'istante esatto in cui l'uno ceda la strada all'altro. Potrebbero essere tempi conseguenti, inesistenti, distanti oppure variabili a seconda della vita che stiamo vivendo e da ciò in cui riponiamo le nostre maggiori aspettative. Il ritorno a Correggio, ad esempio, è per l'autore viaggio volto a sondare il mistero della propria origine e della propria appartenenza alla terra emiliana. Di tutto questo cosa resta?


La strada, resta l'odore della strada. Quell'immenso itinerario di vita costruito lentamente, alimentato da mancanze, ricordi, incontri che si ripetono, immagini che ritornano come pellicole impresse nella mente. La stessa strada come morfologia reale di tutto ciò che abbiamo lasciato nella necessità dell'andare ma anche di tutto quello che, vivendo, non possiamo fare altro che raccontare. Tutto questo non sarebbe possibile se non avessimo deciso, semplicemente, di metterci in cammino. Che il viaggio abbia dunque inizio, on the road ovviamente.

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