Tino Schirinzi: un attore da tornare ad amare, anche grazie a una biografia

Tino Schirinzi: un attore da tornare ad amare, anche grazie a una biografia
di Anita PRETI
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Domenica 15 Settembre 2019, 19:32
On ne badine pas avec l'amour, gli piaceva dirlo in francese: non si scherza con l'amore. Chissà perché gli andava di fare così. Lui, Tino Schirinzi, che a stento, quando era giù dal palcoscenico, infilava un discorso con la più perfetta dizione richiesta agli attori. Scherzando con l'amore è nata Alla che ha scritto un libro anche per parlare di un padre che non ha mai conosciuto ma soprattutto per ricordare a chi lo ha amato e ai giovani che si accostano al teatro una presenza importante per le scene italiane.
Torna a Taranto Alla Munchenbach con Un mestiere costruito sull'acqua, pubblicato da Edit@, ma questa volta la presentazione, domani, lunedì, alle 22 al MuDi, il Museo Diocesano, inserita negli appuntamenti del Giovanni Paisiello Festival prende una forma composita, diversa. Dalle 199 pagine del libro, infatti, fiorisce Con l'amore non si scherza. Tino Schirinzi, un artista di Taranto, un reading che impegna l'autrice, l'attore (e regista, e drammaturgo francavillese) Chicco Passaro, e il duo Schirinzi formato dalle sorelle Francesca e Daniela, la prima al violino e la seconda al violoncello. Il cognome tragga pure in benefica confusione anzi faccia chiarezza, una per tutte, nella biografia di Agostino, detto Tino, Schirinzi. Perché se l'anagrafe compita il nome di Taranto come luogo natale, in una lunga intervista concessa a Quotidiano e pubblicata proprio quarant'anni fa su queste colonne appena venute alla luce, alla domanda su quale fosse la dominante dei ricordi, il grande attore rispondeva che i lacciuoli della memoria si avvinghiavano ai colori di Gallipoli, luogo delle radici familiari e all'odore dei taumaturgici capperi con i loro sontuosi fiori alla faccia dell'umiltà della pianta.
Che avesse imparato da lì la sua di una umiltà, Tino? Perché pur essendo un grande, un grandissimo, non aveva mai rinnegato il fatto di essere un uomo comune e appena posati i piedi in città, a Taranto, dagli che era tutto un lanciarsi nel dialetto, acchiappare gli amici, sprofondare nei loro divani accontentandoli con il racconto di quello che volevano sapere (la tale attrice, in odore di sexytudine, il tale maestro del cinema, la tale paziente anticamera nei corridoi della Rai finché non arriva la scrittura per interpretare Paganini (pur avendo un braccio offeso e un violinista con un braccio in meno è un bel rebus); ma nello stesso tempo Tino li interrogava non solo sui ricordi ma anche sull'impossibilità di essere normale a casa propria. Il refrain, con il quale dipingeva il suo ingresso in arte, era (pronunciato in dialetto con tutte le vocali chiuse e l'impronta più gutturale possibile, come fanno gli autentici tarantini): Sei venuto o t'hanno mandato? A me mi hanno mandato, altrimenti io rimanevo qua e gli brillavano gli occhi, sciorinandolo, beffandosi della Crusca e della sintassi. Sì, avrebbe voluto lavorare di più a Taranto e per Taranto e non solo portarvi gli spettacoli in tournée (e chi se lo dimentica il suo Ciampa, per Il berretto a sonagli di Pirandello) o venire a ritirare dalle mani del sindaco un premio, Il fiore all'occhiello; ma il tram passa sempre ad un'ora sbagliata per gli artisti tarantini, ieri come oggi. E allora Tino era andato, anzi si era mandato da solo: la selezione al Petruzzelli per Gran Premio, una gara televisiva. Gli studi al Centro universitario teatrale di Roma, le prime scritture, le due affermazioni determinanti, al Teatro Stabile dell'Aquila e al Piccolo Teatro di Milano, che avrebbero consolidato la sua fama presso l'esigente ridda di colleghi e critici prima ancora che presso il pubblico. Al Piccolo non è Strehler che lo porta alle stelle, non ha mai lavorato con il genio triestino, ma un vicino di casa del Sud, un pugliese come Tino, Walter Pagliaro. I due spettacoli fatti con lui, nel giro di due stagioni consecutive, alla svolta tra i Settanta e gli Ottanta, Aspettando Godot di Beckett e L'illusion comique di Corneille (che debutta all'aperto, in un campiello veneziano) sono da manuale e le foto che si possono ancora guardare sul sito del Piccolo Teatro di Milano restituiscono intatto l'incantamento di cui hanno potuto godere gli spettatori. Gongolava invece Paolo Grassi, sempre alla ricerca della pugliesità, da difendere come un panda: due conterranei in un solo colpo nel suo teatro e anche lui lo raccontava a Quotidiano.
Prima del Piccolo c'è dunque un altro Stabile, quello dell'Aquila. Qui nascono le grandi prove del teatro di Antonio e Cleopatra di Shakespeare e poi ci sono Giraudoux, D'Annunzio e nasce l'amore per la comprimaria, una gigantessa della prosa, Piera Degli Esposti. Due fuochi e non c'è cenere che possa domarli, qui davvero non si scherza con l'amore e finché dura è bellissimo. Ancora uno Stabile, quello di Bolzano, e nasce Qualcuno gridò ora sul nido del cuculo: Tino ci mette dentro tutto quello che sa, avrebbe fatto il medico se solo avesse dato retta ai suoi ma quella laurea appesa al muro non l'ha preservato dal male che ogni tanto tornava a visitarlo o dai mali che hanno ghermito i due figli avuti dalla prima moglie. Né può aiutarlo Cotrone, il mago della compagnia degli Scalognati ne I giganti della montagna, l'incompiuta di Pirandello, che fa diventare un gigante Tino. Quanto al signor de Musset e al suo On ne badine pas avec l'amour è uno spettacolo delizioso, un duetto fra Tino e Piera, gestito sempre dell'Aquila. Poi ci sono, in ordine sparso, Candido, Oblomov, Borkman, Rosmersholm, Stadelmann che Claudio Magris gli cuce addosso. In televisione Tino Schirinzi arriva con Majakosvskij, segue Paganini, proprio due tipetti per diversi motivi; al cinema tre belle prove: Malizia di Samperi, il delizioso Sciopen di Odorisio e Tre fratelli di Rosi. E perché sia ancora una volta chiaro che non si scherza con l'amore incontrando Desy, detta Daisy, Lumini, nobile signora fiorentina con l'amore per l'arte (a Taranto, sempre in quei magnifici anni Settanta, veniva a portare il suo canzoniere insieme a Beppe Chierici), musa poi dell'avanguardia musicale più colta, bene incontrandola sulla sua strada decide che questo sarà l'ultimo amore della sua vita. E nel patto eterno è compreso, quando la malattia torna ad aggredire lui, un volo come quello delle figurine di Chagall. Ma non nella stessa direzione.
Ora è chiaro che si ti capita di incrociare i passi con un uomo di questo genere, genio e sregolatezza, non puoi che essere orgoglioso se per caso porti il suo cognome. Ed Alla, che quel cognome non porta ma per la tenerezza che ha verso gli altri tanto gli assomiglia, si è vista arrivare a Taranto, al TaTà, nel corso della più recente presentazione del suo libro, un van carico di Schirinzi. Tutti gallipolini. Una comitiva transgenerazionale, di ogni ordine d'età, commenta Alla Munchenbach travolta dall'affetto e sorpresa felicemente da questa ritrovata famiglia. Anche le giovani musiciste attese lunedì al Fusco, le sorelle Schirinzi, Francesca e Daniela sono parenti: il loro nonno era fratello del padre di Tino, spiega Alla. Un incontro inaspettato, per me una ricchezza. Lo sa per certo che si sono dette: Ma come: c'è qualcuno che parla di Tinuccio; allora dobbiamo andare, partire.
Così vien da pensare: ma in questi mesi, da quando il libro, generato dalla sua tesi di laurea, è stato pubblicato, Alla, che è nata in Francia ma vive in Toscana dove Tino ha voluto concludere i suoi giorni, cosa ha capito di più, cosa è cambiato? E' un percorso che si evolve. Il libro ora si è trasformato in uno spettacolo, con la musica. Una cosa anacronistica. E l'immagine di un padre si è finalmente formata nella mia mente e nel mio cuore.
 
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