L'intervista/ Paolo Giordano: «In Tasmania lo spirito del tempo tra le nostre macerie»

Lo scrittore ospite del Festival dell’Armonia con il nuovo romanzo

Paolo Giordano
Paolo Giordano
di Alessandra LUPO
6 Minuti di Lettura
Lunedì 29 Maggio 2023, 04:30 - Ultimo aggiornamento: 30 Maggio, 01:14

Paolo Giordano è a quarant’anni una delle voci letterarie più autorevoli d’Italia. Dal suo esordio letterario con La solitudine dei numeri primi, che nel 2008 gli valse il Premio Strega, alla progressiva estensione del campo d’azione in ambito letterario e giornalistico. Memorabili i suoi podcast sull’Italia durante l’epidemia da Covid, viaggio tra i corpi che si ammalano ma anche nella società colpita, con una puntata dedicata al doloroso parallelo tra pandemia e xylella fastidiosa in Puglia.
Domani sera sarà ospite del Festival dell’armonia che si tiene nel Capo di Leuca. Alle 20 nei Giardini Pensili di Presicce presenterà il suo ultimo romanzo “Tasmania” (Einaudi), dialogando con il direttore artistico di Armonia Mario Desiati (Premio Strega 2022 con “Spatriati”, Einaudi). 
Giordano, il festival Armonia porta in periferia un po’ di “polvere di stelle” dello Strega, legata a quello che oggi è il principale festival dedicato alla letteratura italiana. Quanto peso hanno nel panorama della scrittura premi come questo, se vogliamo un po’ mainstream?
«Io penso che oggi abbia ancora più peso, sicuramente in termini relativi, nell’imporre dei libri nel panorama commerciale. Io lo vinsi con un romanzo che se vogliamo era già un successo commerciale ma il Premio Strega può fare la differenza nella vita di un libro. E facendo parte del comitato ormai da alcuni anni, ho notato quanto sia cresciuto l’interesse di accedere al premio. Soprattutto oggi che con la formula itinerante permette di far conoscere gli autori e i loro libri».
Dialogherà con Mario Desiati, premio Strega di quest’anno. Autore affermato ma anche con una grande attitudine all’animazione e allo scouting. La Puglia negli ultimi anni ha dato un contributo notevole in questo senso, la vecchia perifericità è superata?
«È vero, Desiati ha sempre avuto una grande vocazione per lo scouting, ha molto fiuto. E la Puglia nelle decadi recenti è stata teatro di una contraddizione interessante: è un vivaio eccezionale di scrittori e scrittrici rispetto al resto d’Italia, ha una enorme densità di eventi che noi scrittori battiamo tantissimo. Ma presenta anche dei dati sugli indici di lettura piuttosto bassi. E questa è una divaricazione interessante». 
Una terra in cui si legge poco come fa a scrivere tanto?
«A mio avviso alcune esperienze politiche più recenti, come quella vendoliana, hanno posto le condizioni per una crescita culturale diffusa i cui risultati hanno poi dato i loro frutti in vari settori culturali».
Il suo ultimo libro, Tasmania, è uscito alla fine del 2022. Ed è stato subito libro dell’anno, (secondo «la Lettura»). Rispetto ai romanzi precedenti la sua voce è stata accolta da tutti come più matura, in grado di abbracciare quello che come esseri umani ci sta accadendo in questo particolare momento storico. Ci si ritrova?
«Questo era lo scopo esplicito che mi ero posto con Tasmania, una delle espressioni che avevo in testa mentre scrivevo era “Spirito del tempo”, un concetto molto sfuggente: si può pensare che ci sia o meno. Ma io penso che esista lo spirito dei tempi. O almeno che esista quello di alcuni tempi e il tempo in cui il libro è ambientato mi sembrava molto chiaro: il periodo immediatamente prima della pandemia e poi con la sensazione dell’immediatamente dopo. Questo spirito del tempo in realtà è proprio l’oggetto del romanzo, quello attorno a cui si muovono tutte le storie. Ovviamente puoi solo cercare di circoscriverlo, in un certo senso come una delle nuvole di cui parla il libro, che nel momento in cui cerchi di ingabbiarlo in modo troppo specifico ti rendi conto che è un pensiero gassoso». 
Terrorismo, Covid, minaccia atomica e disastro climatico sembrano dialogare con la crisi personale dei protagonisti. In tanti hanno rintracciato in questo approccio complesso una certa eredità della sua formazione da fisico. C’è bisogno di abbandonare la linearità della narrazione?
«Io non so se ci sia bisogno di abbandonare la linearità, che in realtà a me manca molto come punto di appoggio. Ma sicuramente mi sono reso conto, ragionando su Tasmania e poi scrivendo, che sentivo la necessità, legata all’idea dello spirito del tempo di cui parlavo, di passare da una struttura verticale in cui tutto ha una certa gerarchia, a partire dalla struttura dei romanzi suddivisi in personaggi ed eventi più o meno importanti, a una struttura orizzontale. Ecco, mi sembrava che tutta questa verticalità nelle nostre vite del presente fosse un po’ stata frantumata e l’immagine che mi tornava alla mente era quella che poi è ricorrente nel libro, delle macerie. In particolare della città di Hiroshima, che viene in un momento livellata. E ho pensato chissà se si può fare un romanzo in maniera orizzontale, muovendosi senza una geografia così prestabilita. Infatti in Tasmania il modo in cui i personaggi scompaiono, ritornano, in cui le relazioni sono interrotte e poi riprese, segue un po’ questo errare tra le macerie».
Il Covid è una tematica a cui lei si è molto dedicato. Dall’instant book Nel contagio ai podcast. Fa capolino anche in Tasmania ma lei ha recentemente detto che con i giusti tempi di elaborazione bisognerà occuparcene anche in termini di “lascito”. La scia del covid insomma avrà bisogno di una grande elaborazione collettiva?
«È inevitabile, a meno di non decidere di saltare due anni della nostra vita collettiva. Molte forme di narrazione interessante, sia letteraria sia cinematografica, sugli anni degli attacchi terroristici stanno venendo fuori adesso. Quindi mi viene da dire che questo sarà il tempo necessario a un’elaborazione più profonda e meno reattiva e quindi meno ovvia».
Lei è riuscito a dare voce a timori contemporanei, da cui la letteratura italiana a volte sembra rifuggire per concentrarsi sugli aspetti più intimi. Crede che ci sia un’urgenza di dibattito ancora inespressa?
«La crisi climatica è certamente tra le tematiche più urgenti da affrontare, perché lo si fa solo nel momento emergenziale e questo è il problema del dibattito. Chi invece cerca di affrontarlo in maniera sistemica, che sono per lo più le giovani generazioni, viene irriso o accusato. Il passaggio fondamentale sarebbe smettere di trattare la crisi ambientale come un elemento di distopia, come se fosse uno scenario eventuale invece che un elemento esistente. E poi in generale credo che occorrerebbe discutere dei temi, come la sanità o la scuola, le carceri, in maniera politicamente meno polarizzata». 
In Italia si è riacceso il dibattito sulla cosiddetta egemonia culturale, penso alle tante polemiche mediatiche ma anche a quello che sta accadendo in Rai o quando a febbraio si è trattato di scegliere il successore di Nicola Lagioia alla direzione del Salone del Libro per cui lei era in lizza. Crede che sia fisiologico il tentativo di una classe dirigente di legittimarsi culturalmente?
«Il concetto di legittimità è un piano che secondo me non ha nulla a che fare con la cultura, che per come l’ho sempre sperimentata si costruisce creando delle opere con una loro validità e universalità. Con il loro modo di guardare il tempo in un intervallo più ampio di quello in cui siamo trascinati quotidianamente dalle polemiche di piccolo cabotaggio. L’idea che si crei una egemonia o controegomonia per occupazione di luoghi e di spazi non sono così naif da non capirlo la trovo aliena alla produzione di buona cultura e di buon dibattito. Dall’altra parte trovo anche che sia deprimente l’idea di opposizione partitica e spartizione e occupazione di tutte le aree perché questo impoverisce tutti: immettere il pensiero che tutti noi scriviamo o produciamo cultura perché siamo organici a un sistema politico è alquanto svilente».
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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