La Taranta e il Salento che ha perso la poesia

La Taranta e il Salento che ha perso la poesia
di Claudia PRESICCE
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Martedì 7 Settembre 2021, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 8 Settembre, 08:47

“Il ragno mi ha punto nel mese del sole a picco, in questa terra che solo settant’anni fa era stata quella del tabacco, quel tabacco di cui rimane qualche scatto fotografico nella palestra di Maristella. In quelle foto si vedono certe aie desolate con due gallinelle che becchettano le granaglie e gruppi di donne sedute sull’impiantito che assemblano lunghe filze di foglie che poi appendono ad essiccare ad un trespolo…”.

È il 2022. Il mondo intorno visto attraverso una puntura di un piccolo antico esserino (a cui nessuno più pensa) è completamente cambiato. Il morso di un ragno ha tutt’altri colori in un’estate in cui chiudono le discoteche gallipoline per droga, mentre il fuoco devasta “la campagna salentina, i tamburelli imperversano a ogni passo”, ma non certo per le “tarantate”. Comincia così tra la fiction e la realtà il singolare romanzo “Io alla taranta ci credo” di Milena Magnani, sceneggiatrice e drammaturga bolognese legata al Salento dove è impegnata per la salvaguardia dell’ambiente.

“Il ragno si è presentato sulla mia coscia a tradimento. Completamente fuori epoca…” dice la protagonista del libro. E ci si ritrova con lei, fuori dal tempo lontano di “fimmene fimmene ca sciati allu tabaccu”, spiazzati dalla storia antica del ragno che però si ripropone.

È lui, è peloso, lungo un centimetro, con un pericoloso colore rosso sul dorso. E il colore è un segnale chiaro, è proprio quello mitico chiamato “te spaddhe russe”. E fa presto effetto, non dà scampo, fa salire la febbre a 40 e gonfiare la gola. E allora così, in questo turbinio di sensazioni, affiorano le domande che uno non penserebbe mai più di doversi fare in questa terra dove ormai di tarantismo e del rimorso di De Martino si parla solo nei convegni accademici (che, dopo anni di un certo successo, ormai tendono a rarefarsi). Emerge uno spazio di tempo per pensare…

Tutte le storie della taranta del Salento erano finte, vero? Balla che ti passa, dicevano. Ma non in questo altro mondo. Non c’è il tabacco qui, e non ci sono neanche più gli ulivi perché la xylella se li è mangiati, ingoiati e poi lasciati nell’ombra delle loro carcasse. Se restano. Spesso sono scheletri bruciati. Quelli del fratello di Donata, la protagonista, erano meravigliosi e vivevano felici vicino Taranto: ora sono carbone nero sotto cieli rosa. E le campagne poi, sono svuotate come un guscio d’uovo, non c’è più nessuno.

Il Salento scomparso

Non c’è più neanche l’ombra di quel Salento un po’ poetico e amaro. Ci sono terre abbandonate, con la faccia del crollo di una storia, e altre invase da brutti capannoni o comunque strutture grigie fumanti tipo treni a vapore paralizzati. C’è odore di abusivismo e incuria, eppure sulla litoranea si sente ancora la finocchina.

La malinconia qui ha trovato nuove dimore, ma è ancora viva, come il ragno.

Si insinuano, così tra queste pagine, riflessioni sulle paure antiche meridionali e nuove tensioni, dimenticanze, mentre un retrogusto chimico si diffonde sotto questo cielo splendido. La cura al morso sarà dunque allineata, chimica anch’essa: niente balli e danze forsennate e liberatorie, ma psicofarmaci. Niente musica della terra che batte nel silenzio di aie deserte all’ombra della vergogna, ma piccole pillole da ingoiare, mentre la stanchezza avanza. Veleno contro veleno. E tra la confusione e la paura, torna un sapore latente di imbarazzo ed emarginazione, oggi come ieri. La storia del romanzo, sempre sospesa tra la visionarietà e la lucidità dei resistenti (inteso nel senso di coloro che non accettano una realtà sgradita, e continuano a sorprendersi senza mai allinearsi pedissequamente) incontra la storia stessa dell’autrice, quella reale.

L'impegno ambientale

Milena Magnani è infatti impegnata nella tutela del territorio salentino con l’“Orto dei Tu’rat”, il luogo delle mezzelune di pietra che raccolgono l’acqua dal vento e combattono l’inaridimento, diventato progetto di contrasto alla desertificazione di un territorio troppe volte oggetto di incendi dolosi. Nel libro compaiono personaggi, reali e immaginari, che popolano questa terra (e che lottano) creando l’intreccio di una storia dai mille toni, anche noir insospettabili. Si gira intorno a questi luoghi inceneriti, dove il nero della fine ha preso il posto del verde e della vita. Si guarda da questo strano osservatorio (che parte dal morso del ragno ritornato) la realtà e la riflessione corre veloce, carica di simboli e di domande che danno un nerbo sempre nuovo alla storia, con una sostanza dura della quale non è facile liberarsi. Fa sentire addosso il senso di una responsabilità che noi pugliesi tendiamo a scansare. Dove sta andando la nostra splendida terra, e dove stiamo finendo noi che non siamo stati dei guardiani adeguati al nostro ambiente?

E poi pure deviazioni altre: quanto vogliamo davvero rendere la nostra naturale accoglienza, spontanea e felice, solo un business senz’anima incanalato in un’industria turistica senza scrupoli o passione… Nella “malesciana” di Donata c’è tutta la perdita di incanto di una generazione distratta e tradita, di una perdita di densità delle cose che contano, di una coperta di cenere velenosa che fa male: quando vola nell’aria, quando si ammassa a terra, quando carbonizza i cuori.
“Per i politici e gli amministratori ‘ambiente’ è solo una parola ghiotta per riempirsi la bocca in prospettiva dei voti…”. Il potere del ragno è ancora qui allora, scatena tempeste, e può fare ancora “ballare” qualcuno. Basterebbe volerlo.

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