L'anniversario/La svolta di Napoleone sulla Terra d'Otranto

L'anniversario/La svolta di Napoleone sulla Terra d'Otranto
di Nicola DE PAULIS
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Mercoledì 5 Maggio 2021, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 16:42

Duecento anni fa come oggi moriva in esilio Napoleone Bonaparte. L’evento del bicentenario sarà ricordato in Francia come in tutta l’Europa e in Italia, tra le altre manifestazioni, la Galleria degli Uffizi allestirà una mostra sull’Isola d’Elba. Al di là dei pareri contrastanti su cui si confrontano gli storici, non v’è dubbio che egli sia stato un coraggioso legislatore per aver promosso riforme radicali in campo giuridico, sociale economico e politico, tali da favorire anche nel Mezzogiorno la fine dell’antico regime. La dominazione francese nel Regno di Napoli iniziò nel dicembre del 1805 con la nomina da parte di Napoleone del fratello Giuseppe, dopo la vittoria di Austerliz. Ma quali furono concretamente gli innovativi provvedimenti legislativi che interessarono l’ex Regno di Napoli e la Terra d’Otranto con la nuova amministrazione, dapprima di Giuseppe Bonaparte e poi di Gioacchino Murat?
«Il Decennio francese, non solo in Terra d’Otranto ma in tutto il Mezzogiorno, è considerato il periodo in cui si registra un’accelerazione del processo di modernizzazione delle istituzioni e della società», risponde subito il professor Mario Spedicato, già docente di Storia Moderna e di Storia sociale dei Media all’Università del Salento, nonché Presidente della Società di Storia Patria di Lecce.
Come avviene quest’accelerazione, professore?
«Innanzitutto in questo periodo si porta a compimento il percorso avviato timidamente dai Borboni con riforme strutturali, come l’eversione della feudalità e la soppressione degli ordini monastici possidenti, l’abolizione e la vendita della manomorta ecclesiastica con la conseguente nascita di una nuova borghesia agraria, si mette mano a una fiscalità che colpisce quasi esclusivamente il bene fondiario, si assegnano nuove e più larghe funzioni alle istituzioni pubbliche, comunali e provinciali, si cerca di imporre il controllo governativo sulla vita della chiesa periferica, progettando una riduzione delle diocesi, sostenendo economicamente le parrocchie e finanziando i seminari per la formazione dei chierici».
Autore di numerose monografie sulla storia sociale, economica e religiosa del Salento, il professor Spedicato ha pubblicato diversi seminari e atti di Convegno sul Decennio francese in Terra d’Otranto, confluiti quasi tutti nella rivista “L’Idomeneo” e nelle collane “Quaderni de L’Idomeneo”, “Cultura e Storia” e “Medit-Europa”.
La politica napoleonica fu però anche innovativa, professore?
«Certamente. La martellante azione legislativa del governo francese di Napoli mira anche a introdurre innovazioni mai prima tentate, come quelle previste dal Codice Napoleonico, che legittima norme, come il divorzio, dirompenti per la cultura e le tradizioni della popolazione meridionale».
L’eversione della feudalità come viene attuata?
«La prima riforma dei napoleonidi è proprio l’eversione della feudalità, che riguarda un istituto cardine dell’antico regime. Una svolta epocale che segna il passaggio dal vecchio al nuovo stato moderno. Uno stato non più fondato sulle disuguaglianze sociali e sulle immunità fiscali, ma sui principi astrattamente proclamati dalla rivoluzione francese. Il corso della storia, anche quella del Mezzogiorno, ci dirà però che non è sufficiente l’abolizione giuridica per cancellare nella sostanza le vecchie rigidità cetuali e i privilegi a esse connessi. Ai vecchi feudatari si sostituiscono i nuovi galantuomini, che praticano stessi stili di vita senza rinunciare a godere pienamente del loro status di proprietari fondiari. Nella realtà la feudalità, come atteggiamento mentale, sopravvive ancora a lungo alla sua eversione legislativa».
Quali le novità in campo amministrativo?
«Con i napoleonidi nascono nel Mezzogiorno i Comuni moderni, che sostituiscono le antiche Università (civium), con funzioni rispetto a queste ultime molto più estese che vanno dall’anagrafe all’assistenza, dall’istruzione alla salute, dalla viabilità alla protezione sociale. Per l’accesso però all’amministrazione pubblica sono necessari per legge due requisiti: essere proprietari ed essere dotati di un’istruzione basica (alfabetizzati), capaci cioè di poter redigere il bilancio dell’ente chiamati a governare. In buona sostanza un accesso consentito solo ai galantuomini».
E l’alienazione delle residenze monastiche?
«Nella sola Lecce prima della soppressione esistevano oltre venti monasteri fra maschili e femminili, rappresentanti delle più antiche e ragguardevoli famiglie religiose. Più del doppio nell’attuale Salento, senza considerare i territori di Brindisi e di Taranto. A Lecce vengono alienati i beni e le residenze dei Gesuiti, Teatini, Celestini, Olivetani, Domenicani e di altri ordini religiosi possidenti. I loro beni venduti (ma forse è più corretto scrivere svenduti) per sanare i bilanci pubblici e le loro antiche residenze requisite (con la sola eccezione delle chiese annesse) ed utilizzate per pubblica utilità (uffici, caserme, carceri, ecc.). Il palazzo dei Celestini diventa così prima sede dell’Intendenza e poi della Prefettura, quello dei Gesuiti sede del Tribunale, quello degli Olivetani ospizio per malati cronici e in tempi più recenti sede universitaria, quello del Carmelitani caserma militare e poi sede del Rettorato, quello dei Domenicani assegnato provvisoriamente ad alcuni enti pubblici e poi sede stabile dell’Accademia di Belle Arti, ecc. Anche le residenze monastiche di Taranto vengono in massima parte destinate inizialmente a strutture militari, poi occupate da istituzioni pubbliche (il monastero degli Olivetani oggi è sede della Sovrintendenza di BBAA, quello dei Francescani è adibito a sede universitaria, quello degli Alcantarini ospita il Museo Nazionale, ecc.) non diversamente da quelle di Brindisi, dove l’antica sede dei Conventuali ospita la Questura, la Provincia e la Prefettura, quella dei Carmelitani Scalzi l’Archivio di Stato, quello dei Minimi prima la Regia Dogana e poi le Poste Centrali, ecc».
In agricoltura si registrano novità?
«E’ indubbio che le politiche dei Napoleonidi prima e poi quelle dei Borboni restaurati favorirono l’emersione e il rafforzamento di un nuovo ceto sociale di galantuomini, ovvero di una nuova borghesia agraria che costruisce le sue fortune sull’allargamento del latifondo e della rendita fondiaria parassitaria. La tanto attesa modernizzazione delle campagne tarda a verificarsi, anzi per certi aspetti registra un arretramento con la progressiva scomparsa della piccola proprietà contadina che aveva resistito alle sfavorevoli congiunture di fine Settecento, inizio Ottocento. La situazione non cambia con l’unificazione della Penisola per con la mancata distribuzione delle terre ai contadini e per il venir meno delle tanto attese riforme sociali, facendo esplodere il malcontento popolare, fino ad alimentare dapprima il brigantaggio politico e poi una diffusa delusione e rassegnazione per gli esiti risorgimentali».