Scrittori del nostro tempo: Cosimo Argentina. «Lontano da Taranto scrivo
storie legate alla mia città»

Scrittori del nostro tempo: Cosimo Argentina. «Lontano da Taranto scrivo storie legate alla mia città»
di Rossano ASTREMO
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Sabato 8 Maggio 2021, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 19:30

Cosimo Argentina, scrittore di Taranto dal 1990 trasferitosi in Brianza dove insegna Diritto e Economia in una scuola superiore della zona, è autore di un pugno di grandi romanzi, tra i quali ricordiamo “Il cadetto”, “Cuore di cuoio”, “Maschio adulto solitario” e “Vicolo dell’acciaio”. Il suo stile crudo e diretto è molto amato da un gruppo nutrito di affezionati lettori. La sua coerenza e la sua indole a non scendere a compromessi lo hanno portato a essere poco considerato dai grandi gruppi editoriali italiani. È un narratore di razza, come pochi, che meriterebbe più spazio e attenzione.

Qual è il primo ricordo che associ alla scrittura?

«Per paradosso, il primo momento di scrittura che mi viene in mente non prevede un taccuino o una macchina da scrivere, ma è legato ai viaggi che facevo con i miei genitori. Erano viaggi a volte molto lunghi e io, figlio unico, seduto dietro, mi immaginavo delle storie e me le scrivevo nella testa. Quello è proprio il primo ricordo legato a una forma di narrazione e di scrittura, in macchina, seduto, da solo, guardando dal finestrino immaginavo eventi, storie, trame e romanzi».

C’è una ritualità definita nel tuo processo di scrittura?

«Il mio modo di scrivere è cambiato con l’avvento dei figli. Prima la mia scrittura era sistematica, a orari fissi: la mattina scrivevo e la sera correggevo. Con l’avvento della prole, scrivo un po’ alla scappona, come direbbe Céline, cioè mi ritaglio il momento opportuno. La cosa che continuo a fare è quello di scrivere tutti i giorni, anche quando non sono ispirato e non c’è verso che venga fuori qualcosa di buono, ma lo faccio perché questo mi tiene ancorato alla storia che su cui sto lavorando».

C’è una costante presente molti tuoi romanzi, rappresentata da una certa crudezza d’immaginario. Ci sono autori di riferimento che hanno influenzato questa tua idea di scrittura?

«Avendo esordito grandicello, (il mio primo romanzo è del 1999 e avevo quasi 37 anni) sicuramente mi sono nutrito di letteratura per anni, prima di cominciare a pubblicare. Da una parte come punto di riferimento ho sempre avuto un po’ gli scrittori alla Hemingway, dove parlano di cose che sapevano andare subito al punto, al cuore della faccenda. Poi mi è sempre interessata anche la narrativa alla Paul Bowles, che cercava di rendere universale quello che conosceva solo lui. Mi hanno ispirato, quindi, scrittori americani della Lost Generation, ma anche della generazione di Burroughs, di Ken Kesey e via dicendo.

Poi certamente la cosa difficile è sganciarsi da quei modelli e trovare la propria voce».

Taranto torna spesso come ambientazione delle tue storie. È un modo per te per riannodare i fili del passato oppure ritieni che un simile contesto sia il più idoneo per raccontare la storia che hai in mente?

«I miei primi tentativi letterari sono stati fatti quando ancora vivevo a Taranto e all’epoca scrivevo storie ambientate in un immaginifico Nord, in terre lontane, distanti anni luce dalla mia città. Io ho lasciato Taranto nel 1990 e il primo libro è uscito quasi dieci anni dopo. Questo allungare l’elastico mi ha fatto forse riscoprire la voglia di scrivere dei miei luoghi. Quindi la distanza ha creato una stranissima e controversa vicinanza a quello che avevo voglia di scrivere. È come se avessi immagazzinato storie quando ero a Taranto ma ho trovato la distanza giusta per raccontarle quando ero via».

Una domanda relativa alla tua storia editoriale. C’è una ragione per cui, nel corso della tua esperienza ultraventennale di autore pubblicato, tu hai cambiato molte volte – consentimi questa metafora calcistica – casacca?

«Succede che quando io credo in un libro testardamente a quel punto faccio di tutto per pubblicarlo, invece di accantonarlo e passare ad altro per dare vita a qualcosa più in linea con la casa editrice con cui sto lavorando in quel momento. E nel tempo spesso mi sono incaponito nel mantenere la rotta di quello che avevo scritto e di conseguenza sono dovuto emigrare verso altri nidi. Quindi è stato dettato dal mio desiderio di credere nel romanzo su cui stavo lavorando, altrimenti avrei mantenuto la stessa casa editrice».

Cosa consiglieresti a un giovane o a una giovane che hanno l’ambizione di fare gli scrittori?

«Il mio consiglio è: abbandonate l’idea della fretta. Una volta si parlava gavetta, adesso è una parola fuori moda, poiché si cerca di arrivare subito alla pubblicazione. Tra il 1985 e il 1999 io ho scritto tre romanzi che sono stati sistematicamente rifiutati e in quel momento questo mi feriva, mi faceva arrabbiare moltissimo, ma oggi benedico quei quindici anni di sberle perché mi hanno insegnato molto più di tutte le pubblicazioni fatte successivamente. È stato quello che mi ha dato la possibilità di vedere la scrittura come qualcosa che è destinata a durate e non a restare un qualcosa legato al momento. Capisci che puoi perfezionarti, che puoi sempre migliorare, che puoi cercare di far meglio nel momento in cui ti sbattono le porte in faccia. Quindi il mio consiglio è: non abbiate fretta, scrivete per il piacere di farlo. Il nome sulla copertina non deve essere l’assillo preponderante».

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