Nel Castello di Otranto le foto di Sebastião Salgado

Nel Castello di Otranto le foto di Sebastião Salgado
di Carmelo CIPRIANI
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Venerdì 20 Maggio 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 09:27

Più che sette anni, quelli trascorsi in America Latina, a Sebastião Salgado sono sembrati sette secoli. Un tempo dilatato, non tanto per la difficoltà negli spostamenti o la riuscita dell’impresa - percorrere e fotografare buona parte dell’America centro-meridionale - ma per il salto nel passato compiuto in quel viaggio. Un’esperienza unica, compiuta sul piano della geografia ma anche della storia, che lo ha riportato indietro di ere, all’alba dei tempi. Passando dalla foresta amazzonica alle Ande, dai contadini boliviani a quelli messicani, associati da modi di produzione agricola “medievali”, dai corridori Tarahumara del nord del Messico fino ai Saraguros, comunità di nativi americani stanziata in Ecuador, Salgado, tra il 1977 e il 1984, ha ripreso società, usanze e costumi che sembravano appartenere ad altri tempi, resistenti alla pressione di un mondo che si evolveva troppo in fretta e che, da una fase all’altra, nel bene e nel male, ha lasciato molti dietro di sé. Sono queste le “altre Americhe”, vicine geograficamente ma così lontane concettualmente da quell’America del Nord incarnata dall’opulenza statunitense, un’immagine che nel mondo della guerra fredda doveva essere totalizzante, relegando nella non conoscenza gran parte del continente.

Salgado sceglie di mostrare la sua America, connotata da autenticità e bellezza primigenia. Nasce un lungo reportage in cui il bisogno di documentare si coniuga alla bellezza della ripresa. Egli celebra il fascino ma anche le contraddizioni di una terra tanto vasta quanto affascinante, ieri come oggi, sospesa tra voglia di conservazione e necessità di cambiamento, tra un passato di perfetta simbiosi uomo-natura e un futuro in costante cambiamento sotto le spinte della società globalizzata di fine millennio.

La mostra nel Castello Aragonese

Un’importante mostra presso il Castello di Otranto ripercorre, a partire da oggi (inaugurazione alle 19.30 su invito) e fino al prossimo 2 novembre, questo lungo e complesso lavoro di esplorazione, raccogliendo 65 scatti. Come la recente mostra al Maxxi di Roma, dedicata all’Amazzonia, ecosistema bellissimo e fragile, conclusasi lo scorso 25 aprile, e tante altre che l’hanno preceduta, anche quella di Otranto è curata da Lélia Deluiz Wanick Salgado, moglie dell’artista che fin dagli albori ne segue il lavoro, contribuendo non poco ad accrescerne il fascino mediante ragionate selezioni e mirate scelte allestitive. Promossa dal Comune di Otranto con il coordinamento di Lorenzo Madaro, la mostra è organizzata da Contrasto, che nel 2015 ha curato l’edizione italiana del libro “Altre Americhe” (titolo dato anche della mostra idruntina), pubblicato per la prima volta nel 1986 in Francia. Questo lavoro primo di Salgado approda oggi nelle sale del Castello Aragonese, dopo altre mostre di artisti assai noti (ultima in ordine di tempo quella di Banksy, oggi al Margherita di Bari) e dopo un’altra recente mostra dedicata al fotografo brasiliano in Puglia, quella alla Sala dei Templari di Molfetta.

Le sue "Altre Americhe"

Definito enfaticamente, in più occasioni, “il più grande fotografo vivente del mondo”, Sebastião Salgado ha già lasciato un segno indelebile nella storia della fotografia. Lo ha fatto fin dagli inizi, proprio con il ciclo “Altre Americhe”, talmente nuovo e suggestivo da colpire Wim Wenders, che non solo ha deciso di acquistare alcune sue foto (il commovente ritratto di una donna tuareg cieca e una ripresa di Sierra Pelada, babelica miniera aurea brasiliana, immagine emblematica per l’artista del suo ritorno ai primordi dell’umanità), ma anche di dedicargli, nel 2014, il film documentario “Il Sale della Terra”.


Salgado nasce ad Aimores, città dello stato brasiliano del Minas Gerais, ancora oggi tra le zone minerarie più grandi del pianeta. A 15 anni si sposta a studiare a Vitória. Vince una borsa di studio per formarsi in ambito economico e intanto conosce Lélia, la compagna della sua vita e che con lui condivide l’impegno politico a sinistra. Sono gli anni della contestazione studentesca. Entrambi si ribellano alla dittatura che in quel momento governa il paese e insieme, dopo il matrimonio, scelgono di trasferirsi a Parigi. Lì mentre lui prosegue i suoi studi di economia, Lélia studia Architettura. Ed è lei che, per lavoro, compra la prima macchina fotografica. Per Salgado è subito una rivelazione. Nel 1971 accetta la proposta di lavoro all’International Coffee Organization e, sempre con Lélia, si trasferisce a Londra. Viaggia spesso in Africa per seguire alcuni progetti di sviluppo e porta sempre con sé la macchina fotografica. La svolta avviene nel 1973 in Nigeria. È allora che sceglie di dedicarsi alla fotografia, non quella da “bella immagine”, ma a quella della ripresa che ferisce, che scuote le coscienze, che fa riflettere. Nel 1979 entra alla Magnum e nel 1986 pubblica “Autres Amériques” con cui si aggiudica l’importante Prix du Premier livre Photo.

Da allora i premi e i riconoscimenti non si contano più.

I suoi temi: lavoro, povertà, emarginazione, ambiente

Al momento di intraprendere la strada da fotografo Salgado fa subito una scelta di campo precisa: i temi da trattare sono il lavoro, la povertà, l’emarginazione, la resistenza alla colonizzazione culturale, fino, nei tempi più recenti, alla salvaguardia ambientale, impegno quest’ultimo reso evidente dalla decisione sua e di sua moglie di creare in Minas Gerais l’Instituto Terra, con il quale riconvertire alla foresta equatoriale - minacciata di estinzione - una vasta area piantando decine di migliaia di nuovi alberi. I suoi temi Salgado li ha cercati e li cerca tuttora in giro per il mondo, tra i contadini e i minatori latinoamericani, tra gli operai europei e le genti del Sahel, tra i paesaggi della Siberia e gli immigrati delle banlieues. Li ha trovati prima in Africa e poi in America, la sua terra, dove nel 1977 torna dopo un lungo peregrinare. 

Munito di macchina fotografica, fino al 1984, percorre il continente immortalando una realtà fatta di una lunga tradizione culturale. I risultati è possibile vederli oggi ad Otranto. Si tratta di immagini in bianco-nero di diversi formati. La teatralità che li connota è ricercata dal fotografo ma è involontaria negli effigiati. Il bianco-nero è funzionale all’intensità della ripresa: esso monumentalizza scene e figure, conferisce loro la solidità del marmo mentre la tragedia del chiaroscuro ne esalta il dolore, la malinconia, la solitudine, la fatica.
Anche il taglio è particolare, quasi sempre un dettaglio scenico, isolato da una veduta più ampia così da ridurre l’immagine all’essenza umana. Nonostante ritraggano indios di ogni età e identica miseria, gli scatti in mostra catturano per una bellezza disarmante, dotati, come sono, di una capacità seduttiva che Salgado come pochi altri sa cogliere, convincendo il mondo intero.

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