Rollo, appunti di un malato di tempo

Rollo, appunti di un malato di tempo
di Rossano ASTREMO
4 Minuti di Lettura
Giovedì 19 Novembre 2020, 09:51

Alberto Rollo, sangue leccese, ma di casa a Milano, dopo il successo di critica e pubblico di Un'educazione milanese, finalista al Premio Strega nel 2017, torna in libreria, anch'esso edito dalla casa editrice Manni, con il poema L'ultimo turno di guardia, lavoro letterario che l'ha accompagnato per almeno un quarto di secolo. Tra i versi emerge la voce di un malato di tempo, che all'interno di una torre, forse cella di isolamento, forse nosocomio o forse rifugio metropolitano, si rivolge ad un testimone, una sorta di infermiere-carceriere. Direttore letterario in Feltrinelli per anni, ora consulente della narrativa italiana per Mondadori; rabdomante, per lavoro, della prosa degli altri, ora, inoltre, si scopre solida ed incisiva voce poetica.
Ci può dire qualcosa sulla lunga gestazione di questa sua opera?
«Ho frequentato molto la poesia e i poeti contemporanei. Da sempre. Ho avuto una profonda passione per la scrittura di Vittorio Sereni, per la sua sobrietà e la sua pulizia. E d'altro canto in Franco Fortini - poeta sofferto, elastico teso fra la lucidità del critico e le contraddizioni dell'impegno politico - ho riconosciuto la necessità del verso, la lancinante inattualità del verso. Mi sono portato appresso queste frequentazioni. E non ho smesso di cercare, in Italia e altrove, quel morso sulla fisicità della lingua che solo la poesia ha. Negli anni Novanta mi ha visitato la voce che troviamo in L'ultimo turno di guardia. Ho sentito, nel corso degli anni, che quella voce non cedeva, reclamava tenacia e continuità. Non avevo nessun bisogno di anticipare una risoluzione di quel lavoro ma, a un certo punto, mandai il dattiloscritto a Roberto Roversi, anche lui figura decisiva per me con Registrazione di eventi e Dopo Campoformio. Purtroppo non ebbi risposta. Erano i suoi ultimi anni di vita. E comunque anche dopo l'invio a Roversi ho continuato ad aggiungere segmenti di quello che ho finito per sentire (e credo di non sbagliarmi) un monologo in versi, piuttosto che un poemetto».
Lei ritiene che questo suo poema non sarebbe stato tale senza la lettura di qualche poeta o qualche opera nello specifico?
«Come ho detto, Fortini è stato fondamentale. Ma mi hanno accompagnato anche due poeti inglesi: Auden prima e Philip Larkin poi. E aggiungerei anche William De Witt Snodgrass (Lo Specchio di Mondadori pubblicò il suo L'ago del cuore): gli scrissi nel 1995 e lui mi rispose e mi fece conoscere un altro segmento della sua opera che aveva aspetti monologanti, se non addirittura narrativi. E non a caso devo aggiungere, a proposito di letture familiari, quella di Bertolt Brecht. Ho cercato sempre, dentro la voce del mio malato di tempo, una sorta di dimensione teatrale che mi metteva a mio agio, e permetteva al mio io di scollarsi da sé - lo straniamento di cui per l'appunto parlava Brecht».
Nel suo testo, tra le altre cose si legge: Dalla calca del corpo le parole / mi traggono. Sbacellane, garzone, / una sequenza. Rovesciane gli strumenti / umani dalla bocca. Siamo storie, / capisci?, storie di storie, caramello / indurito. E poco prima: Io ti sotterro, morte, io ti tengo / al caldo. Io ti vedo. Mi pare che un tema centrale del suo poema mi pare ci sia la necessità del raccontarsi dell'io poetico come strumento per esorcizzare la morte. Ritiene la mia considerazione pertinente?
«Forse non si tratta solo di esorcizzazione. Stando a quanto dice la voce del vegliardo, la morte non esiste, o meglio non esiste il venir meno al mondo che giace tutt'intorno minaccioso e assente. Il personaggio monologante sa che il pericolo del finire della Storia non gli consente di sottrarvisi. Nella sua prigionia (e nella sua degenza) sa che può e deve resistere, per vedere semmai come va a finire, ma non c'è fine prima della sua fine. Non vuole essere congedato, tanto più da chi ritiene inadatto ad accompagnare (più diligente che partecipe) la dipartita. Fuori non ci sono solo rovine. C'è una memoria che rischia di diventare residuale, ciarpame».
Dal fortunato Un'educazione milanese al presente L'ultimo turno di guardia; con Manni il sodalizio sembra continuare e funzionare. Ci può svelare qualcosa in più sul rapporto con la sua casa editrice?
«Con Manni esiste un rapporto di stima e di amicizia. Ho avuto la fortuna di conoscere Piero Manni, recentemente scomparso, e di comprendere come il suo impegno e la sua cultura hanno potuto diventare un nodo e uno snodo di attenzione e di stimolo. Non è un caso che la rivista di Manni si chiami l'immaginazione. Anna Grazia D'Oria mantiene viva una bella fucina di talenti e lettori. C'è una continuità e, usando un termine caduto in disuso, una linea non rintracciabile altrove. Questo mi piace. E mi piace la generosa curiosità di Agnese Manni sulla quale ora pesa il futuro della casa editrice. Gioca in questo rapporto anche quel po' di sangue leccese che mi porto dentro. Milano e Lecce. Nord e Sud. Due poli culturali. Esiste un filo che va da una realtà all'altra e va irrobustito».
© RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA