Roberto Vecchioni: «In volo tra le mie lezioni senza distanza di sicurezza»

Roberto Vecchioni: «In volo tra le mie lezioni senza distanza di sicurezza»
di Francesco MANNONI
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Lunedì 9 Novembre 2020, 20:57

«Ho molti ricordi dei tempi in cui insegnavo al liceo, che per me resta il posto più bello della scuola che abbia conosciuto in vita mia. Il mio, per l'insegnamento, è un amore grandissimo. Sul palco prendi gli applausi per te, ma in un'aula scolastica prendi gli occhi sgranati dei ragazzi, le bocche spalancate per la meraviglia», racconta Roberto Vecchioni, con la stessa voce calda e appassionata con cui ha affrontato le 15 lezioni «che tutti avremmo voluto ascoltare, a scuola e nella vita», come dice il sottotitolo del suo nuovo libro, "Lezioni di volo e d'atterraggio". Nelle lezioni del cantautore-didatta c'è spazio per Socrate come per Fabrizio De André o Alda Merini (con una sorprendente poesia inedita), «sempre visti in una maniera nuova nel tentativo di rinfrescarne l'immagine», spiega lui.


In un momento in cui la scuola vive uno dei suoi momenti più difficili, il suo libro, Vecchioni, vuole essere un incitamento a fare dell'inventiva didattica un passaporto universale?


«Il senso è questo. La scuola non è solo aula, programmi, didattica: è anche quello, ma è soprattutto formazione, ginnastica mentale, leggere per documentarsi su un sentimento o una capacità umana e rivederla nei grandi personaggi e nei grandi movimenti storici e nelle cose che ci hanno colpito e discuterne con gli altri. Tutto questo discuterne rafforza la nostra anima. Di fronte a una realtà che sembra sempre più grigia e materialista, sempre più votata al successo e al denaro, avere questa corazza di cultura fa un gran bene perché ripara dalle sconfitte. Quando insegnavo al liceo, tentavo di metter dentro anche le materie che conoscevo meno come l'astronomia, la chimica e la botanica».


Perché?


«Perché tutto concerneva certi periodi e certi momenti dell'uomo, e perché ci siamo affaticati tanto a cercare queste cose. Il cammino umano, è molto di più della battaglia di Waterloo o dell'incoronazione di Carlo Magno: è tutte le altre cose che non si sanno o che non si dicono. I ragazzi sono abituati a calcolare la storia attraverso Annibale, Cesare, Carlomagno, Churchill e basta, invece bisogna legare questi eventi perché una cosa entra nell'altra: un filo rosso lega l'umanità dalla sua nascita ad adesso ed è sempre la parola che dà la forza al pensiero».


Ha diviso il libro in due parti: il volo e l'atterraggio.


«Non è proprio una divisione: è un andare con la fantasia più avanti che si può, perché è bello partire e cercare soluzioni diverse di tutti i tipi nel passato e nel presente. Posso inventare che Socrate non è morto in mezzo agli amici ma da solo, però poi devo dirlo ai ragazzi: la verità è questa. La parte dell'atterraggio è la parte più umana, più debole, nostra: quella di un quotidiano monotono. Nel volo tutti i giorni sono bellissimi e sublimi».


Rispetto agli anni in cui ha insegnato e creato queste 15 lezioni, la scuola com'è cambiata?


«Da 18 anni insegno all'università, ma al liceo c'era una formazione di persone, di anime, di coraggio, di ragazzi tra i 14 ai 18 anni e bisognava stare molto attenti a ciò che si faceva perché si poteva rovinare tutto o migliorare tutto.

I ragazzi li conoscevo molto più dei loro genitori. Li conoscevo per come sono, i difetti che avevano, le incertezze, le affettività, i dolori. Entravo nella loro anima senza tentare di spostarla, rovinarla, cambiarla. Sono andato in pensione nel 2000 quando non vedevo più la scuola bellissima degli anni 70/'90».


Che cosa le mancava?


«Non c'era più l'afflato di una volta tra me e gli studenti per tantissimi motivi. Passato l'edonismo reaganiano incombevano gli anni berlusconiani, i valori non erano certo quelli del volo ma dell'atterraggio. Il senso della vita era conquistare, guadagnare, vendere, comprare e non era quello che potevo dire ai ragazzi perché ciò non faceva parte del mio mondo. I ragazzi del liceo di quei tempi avevano una mentalità non ancora rovinata, ma già indirizzata verso questi e non altri traguardi. Ho provato a insistere, ma c'era già troppa malavoglia, neghittosità, stanchezza».

Come vive questo nuovo lockdown?


«Osservando che tutto va in rovina. Non c'è soltanto il Covid-19: ci sono i terremoti e gli attentati, ma per fortuna Trump non ha vinto le elezioni americane».


E la dad, la didattica a distanza?


«L'abbandono delle aule mi fa stare malissimo. Spero si possa trovare presto una soluzione per far tornare i ragazzi in classe. La scuola è stare insieme, conoscersi, amarsi, deprecarsi, non capirsi... Ma capirsi dopo, vedere insieme cos'è la vita. Però so benissimo che i ragazzi ce la faranno lo stesso».


È appena uscita la ristampa di Montecristo: perché si parla di un «album perduto»?


«Uscì nel 1981: successe che andarono in causa due case discografiche per questioni contrattuali e batti e ribatti ritirarono il disco dal commercio e distrussero i master analogici originali. Sono molto contento che sia tornato in commercio perché c'erano delle cose che mi piacevano tanto, a cominciare dalla copertina disegnata da Andrea Pazienza: me su una torre che guarda all'infinito e dentro il disco una donna con i capelli sparsi che somiglia alle protagoniste del film di Fellini La città delle donne, titolo peraltro di una delle canzoni di quell'lp. Il brano, però, a cui sono più legato resta Ciondolo: è la storia molto complicata di un uomo famoso che s'è stufato della vita e vuole nascondersi perché deluso da un amore perduto. Il disco riflette un momento critico della mia vita, un distacco affettivo piuttosto forte che mi ha portato molto dolore».

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