«Donne, l’emancipazione non è mai iniziata in Iran»

«Donne, l’emancipazione non è mai iniziata in Iran»
di Claudia PRESICCE
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Giovedì 8 Giugno 2023, 05:00

Religione islamica e rivoluzione femminile: quando il mondo guarda all’indietro non può che restringersi lo spazio delle libertà. Ma la deriva delle democrazie e del rispetto dei diritti umani di tutti, donne per prime, è dovuta ad un’onda anomala della contemporaneità che ha risucchiato all’indietro le società o è un atteggiamento antistorico (più che astorico) che da sempre è rimasto più o meno latente tra fondamentalismi religiosi e politici? Se i margini di questo dibattito sono davvero ampi, la giornata organizzata oggi dalla Fondazione di Vagno a Bari si preannuncia particolarmente intensa. “Donna, Vita, Libertà. Religioni e rivoluzione femminile” è il tema del nuovo appuntamento di Lector Incontri dedicato al rapporto complesso tra religioni, società e democrazia. Tanti i relatori e gli ospiti che si alterneranno dalle 17 nel Teatro Kursaal Santalucia di Bari.

«Per capire il presente va interpretata la Storia – spiega Leila Karami, docente iraniana alle Università La Sapienza di Roma e Ca’ Foscari di Venezia che sarà tra i relatori dell’incontro – a me interessa particolarmente l’aspetto storico e come sono nati vari problemi che riguardano oggi le donne. È importante guardare la posizione delle donne nella storia contemporanea per capire il nostro mondo e soprattutto la storia recente iraniana».

Parliamo allora anche di Iran. Perché secondo lei ha ripreso posizione un atteggiamento persecutorio nei confronti delle donne? Sembra che posizioni anti-femminili di un conservatorismo antistorico siano presenti (più o meno) latenti in culture di diverse latitudini del mondo, sotto diverse forme…

«Lei è sicura che si ritorna indietro, oppure c’è a monte una mancata emancipazione delle donne? Se guardiamo, ad esempio, la storia delle donne in Iran non troviamo una posizione astorica, ma è una questione di emancipazione non ancora attuata com’è avvenuto nell’Occidente. L’attenzione nei confronti della donna in Iran è arrivata nel solco di una serie di movimenti nazionalisti, entrandoci non come attenzione alle “donne” ma come agli esseri umani all’interno di questa nazione. La storia ci ricorda le due rivoluzioni iraniane del secolo scorso, quella costituzionale persiana del 1905 e quella del ’79 che è la più celebrata. Quest’ultima è iraniana, ma non è una rivoluzione islamica come erroneamente viene detto. Presto le anime di quella rivoluzione sono state messe da parte, anche attraverso metodi repressivi. Era un movimento composito, anche con gruppi politici di sinistra, ma tutti i rivoluzionari credevano alla retorica che prima fosse necessario risolvere i problemi del paese, ovvero abbattere la dittatura, e poi automaticamente i problemi delle donne si sarebbero risolti. Questo non è mai avvenuto, perciò mi chiedo: c’è mai stata una vera emancipazione delle donne dell’Iran? Se mai siamo arrivati in anni recenti ad una presa di coscienza della condizione delle donne.

Tuttavia oggi pensare che la situazione delle donne possa migliorare senza un risanamento delle problematiche economiche che stanno attraversando l’Iran è impensabile».

Oltre ai fondamentalismi religiosi, ci sono anche fenomeni politici che puntano a ridimensionare la figura della donna nella società: quanto in Iran è un problema religioso e quanto legato a una politica conservatrice?

«Ad entrambe le cose. Intanto il problema è che siamo abituati a pensare come a un blocco unico la questione femminile islamica, cercando di raggruppare tutto sotto un’etichetta che non guarda alle differenze giuridico teologiche e alle condizioni economiche sociali dei singoli paesi. Dire ‘donna islamica’ non tiene conto di grandi differenze sociali, di istruzione, di provenienza dal piccolo villaggio o dalla grande metropoli. Bisogna fare delle distinzioni e capire, per esempio, per donna iraniana quale donna intendiamo: il livello di istruzione femminile è molto elevato in Iran, ma non è uguale in tutto il paese. L’Iran è percorso da vari tipi di dittature, oltre a quella centrale: la politica non è come un tempo riconducibile a una sola persona. Ha l’appoggio di militari e paramilitari, sottogruppi di piccole dittature che agiscono nel paese. In questa complessa situazione il fatto che entri in gioco anche la religione rende ancora più manipolabile quasi tutto, la Costituzione, sia la religione sia la questione politica. È difficile quindi vedere una separazione tra i poteri: è come un’unica forma di controllo che si esercita a turno, dove manca la politica entra in azione l’ideologia religiosa e dove non regge la religione entra in azione la posizione militare politica».

Che cosa concretamente secondo lei si può fare per arginare la deriva dei fondamentalismi?

«Non credo davvero che sia una cosa facile proporre delle soluzioni in questo mondo globalizzato. Gli embarghi, anche gli ultimi, non hanno funzionato in Iran e, anzi, hanno creato una forma di economia malata, una mafia diffusa in sottofondo. Non credo che dall’estero si possa fare molto per l’Iran, sinceramente, le vie diplomatiche certamente aiutano, ma il resto deve venire dall’Iran stesso. Le soluzioni finora proposte da tanti studiosi non hanno funzionato, e davvero io non saprei cosa proporre…».

Il movimento culturale almeno aiuta, la cultura lancia sempre ponti...

«Certamente, per monitorare anche le situazioni in corso. I movimenti culturali in Iran sono vivaci, e lo stiamo vedendo tutti oggi. Negli ultimi mesi hanno dimostrato all’Occidente quanto è spaccato l’establishment del potere dalla società civile. Anche noi non sapevamo che passeggiando in una strada di Teheran da uno zainetto un paramilitare poteva tirare fuori una pistola e spararci addosso. Ad aprire gli occhi tutto questo è servito anche a noi».

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