Dare del Lei alle parole. L'impresa che vale un'enciclopedia

Dare del Lei alle parole. L'impresa che vale un'enciclopedia
di Rosario COLUCCIA
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Domenica 7 Maggio 2017, 20:31
Di mestiere faccio il linguista. Due settimane fa ero in Germania, a Saarbrücken, dove studenti e professori di mezza Europa hanno festeggiato l’85° compleanno di Max Pfister, nato in Svizzera (Zurigo), docente nelle università tedesche da decenni, uno dei maestri mondiali della filologia e della lessicografia. Pfister è ideatore e autore (insieme a vari collaboratori, da lui mirabilmente organizzati e diretti) di un’opera monumentale dedicata alla nostra lingua, cominciata alcuni decenni fa (negli anni settanta del secolo scorso) e ancora in corso (ne sono apparsi diciotto volumi di grande formato, più di un’enciclopedia, per capirci): il Lessico Etimologico Italiano, che ricostruisce la storia di tutte le parole della nostra lingua e dei nostri dialetti, dalle più antiche attestazioni fino ai nostri giorni. Ideato da uno svizzero-tedesco, stampato in Germania, questo straordinario monumento dedicato alla nostra lingua e alla nostra cultura è scritto in italiano, non in tedesco. Le ragioni di questa importantissima scelta linguistica sono evidenti e sono state più volte dichiarate. Solo se scritta in italiano (e non in una lingua straniera), l’opera poteva essere conosciuta e apprezzata in Italia, mettere salde radici nella nostra realtà, avere vita piena e proiettarsi nel futuro. Alla codirezione di quest’impresa è stato chiamato da alcuni anni Wolfgang Schweickard, allievo di Pfister e suo successore nella cattedra universitaria, studioso eminente, anche lui in grado di scrivere e parlare in italiano perfetto.

Il Lessico Etimologico Italiano (d’ora in avanti LEI) è un’impresa straordinaria, destinata a durare. Le opere dell’uomo non sono eterne. Ma i prodotti migliori dell’ingegno umano sfidano i secoli: restano i grandi monumenti in pietra (gli anfiteatri, le chiese, i palazzi), i dipinti e le sculture di qualità, i libri che infiammano i sentimenti e suscitano l’intelligenza dei lettori.

Che significato assume, per chi cerca di ricostruire la storia della nostra lingua, la realizzazione di un’opera della portata, della concezione e della precisione raggiunte dal LEI? Uno strumento del genere non va consultato occasionalmente, per informarsi sull’etimologia di una parola o magari per accertarsi se una determinata forma esiste in un determinato autore, in un testo antico, in un dialetto o in una regione. Ogni voce (che si sviluppa per pagine e pagine) rappresenta un vero e proprio capitolo di storia linguistica. La comunità italiana vista attraverso le parole, filo conduttore della nostra storia e delle vicende del passato e del presente, illuminanti per una nazione che ha raggiunto tardi l’unità politica. I fatti linguistici sono indagati a tutti i livelli e in tutte le direzioni, a livello popolare e a livello colto, tenendo conto dei rapporti con le lingue esterne. Si ricostruisce così il quadro complessivo della nazione, la nostra storia linguistica e culturale.

Quest’impresa ha fondato la fama di Pfister come studioso massimo del lessico italiano e gli ha procurato la riconoscenza e l’ammirazione dell’intero mondo universitario. Ne sono testimonianza i riconoscimenti da lui ricevuti. È dottore honoris causa delle università di Bari (1988), Lecce (1991), Torino (1998), Roma (2001) e Palermo (2002); ha ottenuto il «Diploma di Prima Classe con Medaglia d’Oro ai Benemeriti della Cultura e dell’Arte» e il «Premio Galileo Galilei»; è stato Presidente della «Société de Linguistique Romane» (che riunisce i linguisti e i filologi romanzi di tutto il mondo) e ne è oggi Presidente d’onore; è membro dell’Accademia della Crusca, dell’Accademia dei Lincei, dell’Accademia di Scienze e Lettere di Milano, dell’Accademia delle Scienze di Mainz e di Heidelberg, dell’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres; ha ricevuto quattro raccolte di scritti di colleghi in suo onore in occasione del 60°, 65°, 70° e 80° compleanno.
Max Pfister è nato il 21 aprile 1932. Come tutti ricordano, il 21 aprile 753 avanti Cristo è la data che la tradizione assegna alla mitica fondazione della città di Roma, fondata da Romolo, discendente della stirpe reale di Alba Longa. Quella tradizione è falsa e quindi non esistono reali coincidenze di date. Anche se sarebbe bello pensare che esista un collegamento tra la città di Roma e l’uomo che per tutta la vita ha studiato con perizia straordinaria l’italiano e gli altri idiomi nati dal latino, lingua nella quale la civiltà romana dei secoli passati si è espressa. Come ha scritto Roberto Antonelli, attuale presidente della «Société de Linguistique Romane», in occasione della festa di Saarbrücken, è bello sottolineare una coincidenza che, pur immaginaria, avvicina spiritualmente l’uomo (Pfister) a un simbolo (Roma), così caro alla cultura mondiale. E poco importa che oggi quella città sia malandata e che le cronache ne ricordino insufficienze e difetti, non potendo celebrarne le glorie attuali, purtroppo quasi inesistenti.

Tra i meriti di Pfister, oltre alla grande competenza linguistica e alla straordinaria capacità di lavoro, vanno sicuramente annoverate le doti organizzative che gli hanno permesso di radunare attorno a sé e alla sua lebenswerk, l’opera di tutta una vita (così egli definisce il suo meraviglioso vocabolario), una squadra di studiosi tedeschi e italiani, dagli ordinari di lungo corso fino ai giovani quasi principianti. L’insieme costituisce un esempio di produttiva cooperazione e di reciproca disponibilità intellettuale infrequente nel campo della ricerca, spesso dominato da spinte individualistiche e da una concezione del lavoro che talvolta fa affiorare sentimenti atavici come la gelosia e il sospetto. E quindi il discorso si sposta sulle grandi qualità dell’uomo Max Pfister, sulla sua capacità di guidare per tanti anni gruppi compositi e spesso rinnovati, di comprendere e valutare con discrezione situazioni e persone. La sua energia inaudita lascia senza fiato. Pieno di tenacia nel suo lavoro scientifico, è capace di seguire con partecipazione le vicende personali di amici e collaboratori. Uomo di lealtà e di generosità senza pari, ci onora con la sua attività e con la sua scienza. Non sto esagerando.

Il LEI si fa a Saarbrücken. Conobbi per la prima volta quella città nell’autunno 1978. Scesi alle 6 del mattino da un treno che veniva da Strasburgo (preferivo passare dalla Francia, non conoscendo allora neppure una parola di tedesco). La città mi parve grigia e anonima, pochissime tracce del passato. La ragione mi fu chiara dopo. Vidi alcune foto della città scattate alla fine della seconda guerra mondiale, letteralmente rasa al suolo, non c’erano due pietre una sull’altra, si è dovuto ricostruire quasi tutto, partendo da zero. Poi, anno dopo anno, ho visto i miglioramenti. Verde dovunque, strade curate e pulite, parcheggi adeguati, facilitazioni per gli spostamenti delle persone con handicap, piste ciclabili, bus in perfetto orario e frequenti, luoghi dove passeggiare e fermarsi, ricerca del decoro. È bella, dico oggi. Ci hanno saputo fare, ecco perché la Germania progredisce, Merkel o non Merkel. Penso alla ricchezza del centro storico di Lecce, un vero museo all’aperto, ha detto qualcuno. E mi chiedo. Può la nostra città adagiarsi sulle meraviglie che il passato ci ha regalato o deve puntare più in alto? Prima d’ogni cosa, non vanno affrontate in maniera adeguata le questioni irrisolte riguardanti traffico, parcheggio, trasporti pubblici, pulizia, aree verdi, strade e marciapiedi, che troppo spesso rendono complicate le nostre giornate e peggiorano la qualità della vita?

Non credo al destino, il sud può essere diverso. Dobbiamo agire. A Denver i cittadini postano in siti dedicati foto scattate ovunque in città, per attrarre l’attenzione sulle cose che non vanno: marciapiedi, illuminazione, viabilità… Perché non facciamo lo stesso noi? Molto meglio che un selfie in posa ammiccante, no? In questi giorni leggo con attenzione i programmi degli aspiranti sindaci (e degli aspiranti consiglieri, quando ci sono). Cerco di capire, non sono tutti uguali. Non scendo in particolari, non faccio propaganda. Ma spesso, leggendo quegli slogan e quei programmi, ho una sensazione spiacevole. «Parole, parole, parole» cantava Mina ad Alberto Lupo; «words, words, words» (parole, parole, parole) risponde il principe a Polonio nell’Amleto di Shakespeare (Atto II, Scena II). Io mi occupo di parole, professionalmente. E allora mi propongo questo. Tre mesi dopo l’elezione, chiunque sia eletto, verificherò la rispondenza dei fatti e delle azioni concrete alle parole pronunziate in campagna elettorale. Eserciterò così il mio mestiere di linguista e di cittadino.
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