Pazienza, un fuggiasco nel mondo del fumetto

Pazienza, un fuggiasco nel mondo del fumetto
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Lunedì 25 Settembre 2017, 13:40
Irregolare come tanti ventenni degli anni Settanta, giovane, meridionale di sinistra trapiantato al Nord, osservatore e narratore acuto, fuggiasco senza obbligo di fuga, professionista riconosciuto da lettori, artisti, fumettisti e presidenti della Repubblica: difficile racchiudere la parabola di Andrea Pazienza in poche righe. L’autore di Pentothal, di Zanardi e di Paz stesso, scomparso 30 anni fa, è raccontato da Stefano Cristante, al di là del suo mito e senza derive retoriche, in “Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco” (Mimesis editore) ovvero “la sovversione della letteratura grafica di un genio del Novecento”.
Cristante, sociologo dell’Università del Salento che lo ha anche conosciuto, parlerà di Pazienza e del suo libro questa sera a Lecce da Liberrima alle 20.30 (nel box i dettagli).
Come nasce “Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco”?
«Sto lavorando sulla sociologia dell’arte includendo anche forme non considerate “arte” finora. Oggi in realtà tutto quello che procura un’emozione estetica è arte, e quindi diventa ridicolo non includere i fumetti. L’Italia poi fumettisticamente parlando è un grande Paese e sto cercando di creare degli studi sulle personalità che hanno segnato questo campo a livello nazionale e internazionale: quindi dopo Pratt sono passato a Pazienza, e poi forse verrà Manara, a differenza degli altri vivente, per individuare il trittico della nuova tradizione fumettistica italiana del ‘900».
Nel 2018 ricorreranno i 30 anni dalla morte di Andrea Pazienza, e quest’anno sono 40 dal suo primo fumetto.
«Su Pazienza sono uscite molte biografie romanzate e varie aneddotiche utili a creare un mito minore, ma io credo che vada valutato seriamente per la qualità delle sue opere e delle sue storie al di là dell’indiscussa genialità».
Veniamo al libro. Perché definirlo “fuggiasco”?
]«Ha vissuto l’infanzia a San Severo, poi da ragazzino da solo è andato a Pescara per frequentare il liceo artistico. Da lì si è spostato a Bologna per il Dams, e poi a Roma e Milano perché luoghi delle case editrici con cui lavorava, mentre gli ultimi anni è stato a Montepulciano. A guardarle sembrano le tappe di un fuggiasco, un irrequieto strutturale, perché ovunque andasse lui accumulava stimoli che nel bene e nel male fornivano materia prima delle sue storie, poi una volta saturo scappava da un’altra parte. È una suggestione per dire che la sua parabola non trovava stabilità».
Nato nel ’56, Pazienza ha vissuto l’epoca “calda” nei luoghi caldi.
«Ha vissuto appieno gli anni Settanta, e quando diciottenne si è iscritto al Dams è praticamente scoppiata la stagione post ’68 che portò alla temperie del ’77. Il suo primo fumetto, “Pentothal”, si incastra perfettamente nel momento dello shock del movimento del ‘77, legato alla morte dello studente Francesco Lorusso, ai carri armati e alla frattura con la Sinistra storica. Pazienza ha avuto la capacità di non farsi seppellire dagli eventi, ma di osservarli e interpretarli, prendendo in giro anche quel mondo di cui lui stesso faceva parte».
Ricordiamo “Pentothal”?
«Non è la classica opera prima, ma uno zibaldone, cioè luogo in cui lui deposita una continua sperimentazione di tratto e molti ammiccamenti testuali. Alcune tavole sembrano fatte oggi, con giochi sulla fantascienza o flirt con scrittori raffinati che lui conosceva bene da gran lettore. A 30 anni Pazienza conosceva le avanguardie storiche meglio di tanti docenti universitari, non era solo un ragazzo talentuoso, ma anche molto sapiente. E riviveva le cose lette attraverso il fumetto».
Tanti incontri nel mondo dell’arte hanno certamente nutrito la sua storia, e nel libro si può seguire l’incessante percorso di crescita di Pazienza. Tra questi il confronto con Hugo Pratt e Milo Manara.
«Manara è stato il perno razionale tra queste figure e tramite lui Pratt e Pazienza si erano conosciuti per il progetto, poi realizzato, di fondare tutti e tre una rivista: era “Corto Maltese” in cui pubblicarono tutti e tre, anche cose importanti, prima che Pratt avesse il buon senso di accettare la proposta di un grande editore e continuare da solo. Ma se con Pratt c’era un rapporto contenuto, anche per la differenza di età incolmabile, con Manara, anche lui un po’ più grande, ci fu un duraturo sodalizio come tra fratello maggiore e minore. E poi l’ammirazione di Manara nei confronti di Pazienza era totale e lui ne ha parlato tante volte (nel libro sono raccolte riflessioni bellissime di Manara su Pazienza; ndr)».
Veniamo ai personaggi di Paz.
«Pur avendo in soli dieci anni riempito i venti volumi che oggi racchiudono la sua opera, con una qualità media altissima, Andrea si considerava un pigro, ma non era vero. Alcuni personaggi li ha trovati già pronti, come nel caso di Sandro Pertini che ha reinterpretato in maniera cabarettistica. La storia racconta che dopo averlo disegnato come un piccolo pupazzetto sulla copertina del “Male” con una battuta sul rapimento di Fabrizio De Andrè in cui, come se fosse un po’ rimbambito, Pertini attribuiva al cantautore “Stasera mi butto”, il Presidente divertito invitò la redazione al Quirinale. Gli altri senza avvisarlo ci andarono e Pazienza quando seppe dell’incontro, se ne dispiacque molto. Allora per vendetta costruì un teatrino in cui lui entrava nel fumetto diventando il migliore amico di Pertini, Paz un partigiano tonto. Senza togliere nessuna autorevolezza al Presidente, riuscì a smontare e rimontare questa vera icona di quel tempo con un’operazione di grandissima comicità».
E Zanardi invece?
«È il suo personaggio più famoso e corrisponde a un suo studio “antropologico” fatto con strumenti narrativi. È un giovane che si insinua nelle fratture della società politicizzata di quegli anni e propone una giovinezza gelida, lucidamente criminale, che non ha bisogno degli adulti. È un mondo diverso, e lontanissimo dal movimento del ’68, che Pazienza ha la capacità di interpretare, fornendo intrecci scabrosi montati in modo eccezionale a livello grafico. Per Zanardi io parlerei di “esattezza” quanto a geometria narrativa. Gli altri personaggi poi sono polaroid che con un linguaggio letterario, con volontari errori di ortografia, denotano un chiaro marchio di fabbrica. Lui non si accontentava mai e, quando capiva di aver raggiunto il massimo in una certa serie, passava ad altro. La sua caratteristica è il molteplice, tanto che ha chiuso inaspettatamente con un fumetto storico completamente diverso dalle sue prime storie. E alla fine è difficile in lui distinguere il narratore dal disegnatore».
Se però Corto Maltese è molto più famoso di Pratt, Zanardi è molto meno famoso di Pazienza.
«Sì è vero, anche perché la morte precoce di Pazienza ha provveduto a costruire una piccola mitologia su di lui, facendolo emergere dall’angusto mondo dei fumetti. Ci sono foto, alcune anche un po’ ritoccate, in cui lui che era un bellissimo ragazzo, sembra più una rockstar che un disegnatore di fumetti. Pur essendo un uomo solare, in lui c’era anche un istinto di morte primordiale, la sentiva intorno. Peraltro di eroina, che allora in Italia era molto diffusa, era morto uno dei suoi migliori amici, Stefano Tamburini, un anno e mezzo prima di lui. In più viveva un’ossessione figlia di certe letture nei confronti dei geni giovani che era una condizione a cui lui aspirava: non voleva essere solo un genio, ma il genio più precoce. Come se l’essere giovani fosse una condizione spirituale e non sociale».
I suoi fumetti, rispetto ad altri, manifestano anche la grande capacità di raccontare il presente.
«Nei suoi fumetti ci sono già tracce di personaggi che sono ancora oggi famosi, da Maurizio Costanzo a Marco Pannella, ad esempio. Ma la sua capacità è quella di prefigurare una struttura narrativa della satira più che sulla caricatura, sul tic o sulla gobba, sulla gestione antropologica della battuta per capire se c’è un dato di permanenza da cogliere. Quando a poco più di 20 anni arriva nella redazione di Linus e riesce a piazzare subito una storia così complicata come Pentothal, si rende evidentemente conto che c’è da investire sul presente. Infatti è tra le sue prime vignette l’immagine storica del giovanotto col loden che cammina e sullo sfondo carri armati tra nuvole di polvere a Bologna. Quell’immagine è qualcosa di più di una fotografa che illustra il ’77 bolognese: c’è già l’inizio del senso di distacco nel giovane che passa e non è uno con la molotov in mano. È come se avesse una capacità di elaborazione che lo rende una persona destinata al presente. C’è in lui la persistenza di uno sguardo antropologico profondo, come un ricercatore sociale che usa tutti i suoi mezzi».
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