Pino Pascali, il visionario che reinventava la realtà

"Vedova blu con Pino" del 1968
"Vedova blu con Pino" del 1968
di Brizia MINERVA
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Sabato 18 Febbraio 2017, 16:32 - Ultimo aggiornamento: 18:03

E’ un minimalismo caldo, mediterraneo, unisce il gusto per il rigore formale al valore simbolico dei gesti e dei materiali della natura.
E’ una scultura che si relaziona con gli spazi, li vive pienamente, pretende interazione. L’autore è Pino Pascali, dopo Giuseppe De Nittis il più grande artista cui la Puglia ha dato i natali.

E’ nato a Bari nel 1935, si è formato tra Napoli e Roma, la città che l’ha consacrato anche prima della sua tragica scomparsa con la sua motocicletta. E’ il 1968, anno travolgente, fulminante e pregno di stupefacenti novità per l’arte.

Se nella Roma di piazza del popolo si fronteggiavano ancora i vecchi maestri della scuola romana con i “maledetti” Mario Schifano, Tano festa e Franco Angeli, mediatori di un transito pop in chiave capitolina, Pascali sbaraglia tutti, reinventa la natura utilizza materiali feriali e concepisce un immaginario transmediale. C’è un complice in tutto questo il suo nome è Fabio Sargentini che nella Galleria L’Attico, in una traversa di via Flaminia , piazza del Popolo non è poi cosi lontana, ha inventato un nuovo modo per concepire lo spazio espositivo, non più luogo di contemplazione ma di furibonda azione. Tra la fine degli anni ‘60 e gli inizi dei ‘70 da lì transitano Jannis Kounellis, Eliseo Mattiacci e Gino de Dominicis. Con il Mare del 1966, 24 elementi di tela bianca e nera su centine lignee, avviene qualcosa di nuovo che poi l’anno successivo con 32 mq di mare circa, oggi alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, si risolve in una chiave ancora più estrema diventando oggetto antinaturalistico e antisimbolico.

Il mare, che nel ciclo precedente aveva occupato il pavimento con onde di stoffa, ora è racchiuso in trenta vasche quadrate di alluminio zincato riempite di acqua colorata all’anilina.

 

Determinante nell’opera di Pascali è la componente autobiografica.
E’ figlio di un funzionario di Polizia che negli anni 1940-41 viene trasferito con la moglie e il figlio in Albania. La guerra vista da vicino e le armi del padre saranno tra le più forti impressioni infantili.
Il piacere che, fin da piccolo, Pino provava nel manipolare fucili e pistole è stato per anni al centro dei racconti di Lucia, madre amatissima e sempre vicina.

Questi ricordi vengono trasfigurati nel ciclo delle Armi del 1965. Il suo intento non è di tipo politico, come per Franco Angeli. Pascali mette in forma artistica i suoi giocattoli con il bagaglio di sogni e desideri che li hanno accompagnati. Le armi a grandezza naturale sono lo spaesamento dell’infanzia, lo sguardo del bambino che è tutt’uno con chi osserva. Ma è anche la gioia del fare, il gusto artigianale per il bricolage, che punta a invertire il significato originario della materia ma anche il senso, come commenta Achille Bonito Oliva citando le parole di Picasso “l’arte come arma puntata verso il mondo”. L’opera diventa un dispositivo per pensare cosa sia o non sia arte, per creare relazioni, attivare memorie, rifare la storia.

Già a partire dal 1959, inizia a lavorare come scenografo alla RAI e collaborare con importanti studi di produzione come scenografo, grafico, sceneggiatore per spot pubblicitari. E’ una fucina creativa che gli consente di sperimentare materiali e tecniche come la plastica e il polisterolo, la cartapesta e la pittura nei quali Pascali traspone con dissacrante disinvoltura speculazioni e meccanismi ideativi propri dell’arte. Oltre alle armi Pino ama la natura, il mare, gli animali, va allo zoo e s’incanta davanti alle gabbie e alle vetrine di giocattoli.

Quando abita a Bari ha una scimmia in casa, Cita, ma appartiene a più mondi, più tempi, più livelli del reale.
Il suo è un progetto di reinvenzione e trasfigurazione del mondo, in cui l’opera diventa il luogo della trasformazione, la fantasia si incontra con la forma. Per sottrarre le cose alla caducità del reale, reinventa gli oggetti nella dimensione dell’arte, con il gioco dell’ironia ne capovolge il significato li fa agire diventare altro, pensare e far pensare.

Ama provocare, stupire. Ama le moto e la velocità. Negli ultimi mesi il suo studio-garage è pieno di roba. Un accumulo frenetico e necessario; che gli oggetti siano marmitte, spazzoloni, bottiglie poco importa, ciò che conta è quello che accadrà quando saranno rimontati in un nuovo senso e cosa faranno. All’ironia e al gioco a partire dal 1966 subentra una nuova coscienza. L’idea di un’arte che dovesse inglobare il fallimento e rilanciare.

Il riflesso lo si legge nelle installazioni, il gioco diventa strumento mimetico trasformativo taumaturgico e l’artista lo sciamano.
Sono le Finte sculture, note anche come Zoo la tappa successiva del viaggio favolistico di Pino verso la mitica età delle origini.
Arte come favola che cattura lo spettatore con la meraviglia ma, allo stesso tempo, lascia emergere il dettaglio che denuncia il malessere, la difficoltà, il conflitto. I trofei di caccia e gli animali decapitati – il Rinoceronte, le Giraffe, code di cetaceo, e altre specie riprodotte per frammenti descrivono il rapporto con una natura spezzettata componibile e scomponibile come i pezzi di un moderno arredamento.

Il tema della mutilazione si delinea con precisione fin dall’origine del suo lavoro maturo, come evidenzia il critico Alberto Boatto, dai: “rilievi di donna, frammenti di corpi destituiti dell’interezza, della congruità e della funzionalità; ed ecco allora la mutilazione che opera sull’organico, lo psichismo, il subconscio da cui vengono fuori in Pascali donne e archeosauri, armi belliche e cetacei”

Nel 1968 dopo le sue mostre all’Attico la fama di Pascali ha ormai varcato i confini nazionali.
Mentre in Puglia è completamente ignorato a Roma è un artista solido e molto amato. Si occupano di lui le più autorevoli voci critiche del momento da Giulio Carlo Argan a Cesare Brandi, Palma Bucarelli, Fabio Sargentini. Nel 1968 è invitato alla Biennale di Venezia con una sala personale, vi partecipa con una produzione frenetica e straripante. Nascono opere come Pelo, giganteschi pouf di pelo acrilico e lana di acciaio intrecciata, le Penne di Esopo, penne di pollastrella su lana di acciaio e legno, La tela di Penelope e L’arco di Ulisse, La meridiana, il Nido riempito di rafia, gli arredi tribali e gli attrezzi agricoli.

In ottobre quando Pascali è già morto giungerà il Premio Internazionale di Scultura, assegnatogli dalla Biennale, e fu la sua consacrazione.
Nel 1997 il Premio Pascali, organizzato dal 1969 alla Pinacoteca Provinciale di Bari con Palma Bucarelli, Soprintendente alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, viene ripreso dal Museo Pino Pascali di Polignano, che ne conserva la documentazione e l’archivio.
Si dispiega così un percorso denso di inciampi e visioni tra arte e vita, realtà e immaginazione forma e impalpabilità di quella che è stata definita non a caso una vita eroica.




 

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