Quanti volti possiede la resilienza

Quanti volti possiede la resilienza
di Rosario COLUCCIA
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Domenica 4 Giugno 2023, 05:00

Da mesi tutti parlano del PNRR, il programma con cui il governo intende gestire i fondi del «Next Generation Eu», lo strumento di ripresa e rilancio economico introdotto dall’Unione europea per risanare le difficoltà causate dalla pandemia. La sigla PNRR significa Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ed è sicuramente comprensibile nel suo significato generale, al di là dei dettagli controversi e per molti aspetti ancora in corso di definizione. Tutti sanno che si tratta di un progetto per rilanciare l’economia affossata dalla crisi. Non altrettanto chiara, forse, è l’ultima parola contenuta nella sigla: «resilienza» deriva dal latino «resilire» che significa ‘saltare indietro, rimbalzare’ (dal verbo latino nasce anche l’aggettivo italiano «resiliente»). La parola resilienza è voce dotta attestata nella nostra lingua dal sec. XVIII e di larga diffusione internazionale, con significati tecnici precisi: indica la ‘capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi’ (in ambito fisico), la ‘capacità di un filato o di un tessuto di riprendere la forma originale dopo una deformazione’ (in ambito tessile) e anche ‘la capacità di un individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà’ (in psicologia). In quest’ultimo caso la plasticità del termine viene estesa ai moti della psiche: le passioni assumono caratteristiche fisiche.

Riporto con adattamenti minimi le definizioni di alcuni vocabolari. Il Sabatini-Coletti glossa: fis. «capacità di un materiale di resistere agli urti senza spezzarsi». Nel Vocabolario Treccani il vocabolo ricorre a proposito di «ecologia» («la resilienza è direttamente proporzionale alla variabilità delle condizioni ambientali e alla frequenza di eventi catastrofici a cui si sono adattati una specie o un insieme di specie»); di «tecnica» («nella tecnologia dei materiali, indica la resistenza a rottura dinamica, determinata con apposita prova d’urto»); di «psicologia» («capacità di reagire a traumi e difficoltà, recuperando l’equilibrio psicologico attraverso la mobilitazione delle risorse interiori e la riorganizzazione in chiave positiva della struttura della personalità»).

La persistente accezione tecnica della parola ne contrasta l’adozione nella lingua comune. Per decenni resilienza, usata solo all’interno dei ristretti circuiti dei linguaggi specialistici, è vocabolo poco noto o del tutto sconosciuto alla maggioranza dei parlanti e degli scriventi. Solo nella seconda metà del Novecento la parola appare in un annunzio pubblicitario, in un settimanale di larga diffusione, letto da migliaia di persone di cultura varia: «Il Prealino è il pavimento resiliente che costa meno, non si deve lucidare mai e dura sempre» (“Oggi”, 1954, 6, V, p.33). Bisogna aspettare ancora qualche decennio perché l’aggettivo resiliente appaia anche in un testo letterario, con un senso legato all’esperienza del respingere. Resiliente per Primo Levi indica un corpo capace di allontanarne un altro: «Schiacciata sotto il peso del corpo mascolino, Line si torceva, avversario tenace e resiliente, per eccitarlo e sfidarlo» (Primo Levi, «Se non ora, quando?», 1982, p.139). Il romanzo ebbe subito uno straordinario successo, vinse il Premio Campiello e il Premio Viareggio. Ambientato tra luglio 1943 e agosto 1945, narra le drammatiche vicende di partigiani ebrei polacchi e russi che combattono per sopravvivere e per ricostruirsi una nuova esistenza in fuga dai loro luoghi di origine; fu tradotto in moltissime lingue (tra cui il finlandese, lo svedese, il norvegese, il danese, lo sloveno, il turco, il giapponese). Il titolo è tratto da un noto aforisma contenuto nel Talmud (‘insegnamento’, ‘studio’, ‘discussione’) ebraico: «Se io non sono per me, chi è per me? E, se io sono solo per me stesso, cosa sono? E se non ora, quando?». Oggi è slogan di manifestazioni e movimenti femministi, sottolinea l’esigenza di un cambio complessivo di mentalità della nostra società, ancorata a una visione tradizionale dei rapporti uomo-donna.

Torniamo a noi.

Un uso più disinvolto di resilienza si manifesta alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso. Da allora il sostantivo circola sempre più ampiamente sui media, dotato di una particolare attrattiva “metaforica”. Il contrario della resilienza è la fragilità. Resilienza non è un mero sinonimo di resistenza, le due parole non sono equivalenti: il materiale resiliente non si oppone o contrasta l’urto finché non si spezza, ma lo ammortizza e lo assorbe, in virtù delle proprietà elastiche della propria struttura.

Un accenno giornalistico alla resilienza compare nel 1986 in un articolo dedicato a Sam Shepard, commediografo statunitense. I suoi personaggi sono sorprendentemente capaci di sostenere le sollecitazioni violente cui sono sottoposti: «Magari si piegano – un po’ – alle necessità della vita. Ma non si spezzano. In una parola, presa questa volta in prestito dall’inglese, sono “resilient”» («La Repubblica», 19 febbraio 1986). I corrispondenti italiani dell’anglismo si moltiplicano a partire dagli anni Novanta: risultano resilienti il mercato giapponese, le scarpe da corsa, lo spirito di chi affronta le conseguenze del passaggio dell’uragano Katrina; ecc. 

In accezione ampia, resilienza e resiliente vivono una recente fortuna. Ancora alla fine del 2014 (quando Simona Cresti, nel servizio di consulenza dell’Accademia della Crusca, rispondeva ai quesiti di lettori che volevano essere informati sull’origine, il significato, la grafia e la pronuncia del termine resilienza), troviamo 225 attestazioni giornalistiche su «La Repubblica» (dal 1984 al 12 dicembre 2014) e 72 su «Il Corriere della Sera» (dal 1992 allo stesso dicembre 2014). Se consultiamo oggi gli archivi in rete dei due giornali, troviamo numeri enormemente maggiori: 7.411 risultati per «La Repubblica», 3.620 per «Il Corriere della Sera».

Rispetto al punto di partenza, la parola ha assunto valori nuovi negli ambiti più disparati. Commentando il libro dal titolo «La Resilienza economica, sociale ed ambientale», «La Repubblica» (14.04.2023) rileva che «il termine resilienza viene tanto usato in economia, ma senza quel reale valore iniziale, psicologico e sociale, presente nella nostra società. Resilienza è stato accostato all’economia, quando prima di tutto è un termine personale, quasi introspettivo». In un campo diverso, quello della pallacanestro, troviamo: «Insinuo che il sentimento principale di un fortitudino (atleta o tifoso della Fortitudo, squadra di Bologna) sia sempre stato la resilienza (…). Noi siamo come Ettore nell’Iliade: sa già che sarà sconfitto da Achille e succederà davanti alla sua gente e ai suoi cari, ma combatte lo stesso. Siamo destinati a perdere ma non impediti a ripartire» («La Repubblica», 03.04.2023).

Qualcuno è arrivato a definire resilienza “parola-chiave di un’epoca”, non una semplice “parola alla moda”. Le parole sono importanti, indicano prospettive e modelli di vita. Resilienza assume un valore simbolico speciale in un periodo in cui la condizione economica, politica, ecologica mondiale (e personale, di tantissime persone che non hanno i mezzi per una vita dignitosa) viene meglio definita da un’altra parola: «crisi» (sempre meno temporanea, ormai quasi strutturale e perenne). Lo spirito di resilienza rappresenta la capacità di sopravvivere alle difficoltà senza soccombervi e anzi di reagire con spirito di adattamento e con elasticità mentale. 

D’accordo, ma non basta. Ogni singola persona può fare moltissimo, certo. Non ci si arrende, si reagisce, chi sta male è abituato a lottare. Ma è compito delle classi dirigenti, di chi governa i destini del paese, mostrarsi all’altezza della situazione difficile, con i fatti e con l’esempio. 

Esiste, in chi governa, consapevolezza di tutto ciò? Siamo in ottime mani? Sempre?

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