È la società a cambiare il vocabolario

È la società a cambiare il vocabolario
di Rosario COLUCCIA
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Domenica 10 Ottobre 2021, 05:00

Dopo una pausa non piccola “Parole al sole” riprende, da parte mia con entusiasmo. Qualche giorno fa, all’improvviso, ho constatato che il caso esiste, a volte offre opportunità inaspettate. Una è capitata a me. Ero intento a ripulire uno sgabuzzino in garage, dove nel tempo si erano accumulate cose diverse, da buttar via o riciclare, caso per caso. Oltre a qualche vecchio oggetto, montagne di carta. Schede e fotocopie usate per i miei lavori, appunti di vecchi corsi universitari, seminari di studenti e capitoli di tesi di laureandi, vecchi giornali e riviste, inserti e supplementi di vario tipo. Da quest’ultimo mucchio spunta una copia del «Corriere della Sera illustrato», anno 3, numero 18-19, 12 maggio 1979. Completamente dimenticata, ovvio. Ha un titolo che attrae la mia attenzione: «Ma in Italia si parla ancora l’italiano?». È una domanda che potremmo farci oggi, rimonta invece a oltre quarant’anni fa. Il sottotitolo precisa: «Sui problemi della trasformazione del linguaggio nel nostro Paese intervengono Walter Tobagi, Luigi Barzini, Franco Foresta Martin, Bruno Rossi, Mario Landi, Gillo Dorfles». Nomi eccellenti, alcuni di primissimo ordine. Dunque l’attenzione dei quotidiani e dei media per la nostra lingua non è un vezzo dei nostri giorni, ne discutevano già vari decenni addietro. 
Ecco alcune frasi desunte da quel gruppo di articoli. A pp.4 e 7: «Fra tante rivoluzioni proclamate e puntualmente fallita, è successo che si sia realizzata proprio la rivoluzione più appariscente: quella del linguaggio. L’italiano conserva fondamentalmente le sue strutture portanti, essenziali. Ma il vocabolario somiglia a un cantiere di lavoro dove si scatenano, per di più, i commando dei linguaggi settoriali, capeggiati dai più sfrenati creativi della pubblicità. (...) Ed ecco un fiorire rigoglioso di formule pittoresche, il detersivo “biolavante” e la crema “boccasana”, la fabbrica di dolciumi che invita a “cioccolatarsi” e l’amarissimo fernet che “digestimola”. Modi di dire che non fanno neanche più arrabbiare: entrano un po’ nel linguaggio comune, passano di moda, vengono sostituiti da una ricerca continua di fantasia. Altrimenti, chi non vespa non mangia le mele. Cioè non fa buoni affari». A p.13, ecco alcune parole dal «Piccolo dizionario del neo-italiano»: «Blitz. Significa ‘lampo’ in tedesco, ed è l’abbreviazione di Blitz-Krieg, guerra lampo. È diventato un modo di dire per indicare azioni rapide, a sorpresa, che lasciano il segno. È di rigore parlare di blitz nelle operazioni antiterrorismo»; «Casino. È una parola passe-partout, buona per qualsiasi uso. Ha perduto quasi completamente il suo significato dissacratorio. Significa ‘caos’, ‘confusione’, ma anche ‘un gran numero’ di oggetti o persone: “c’è un casino di libri, a quella festa c’era un casino di gente”»; «Ultrà. ‘L’estremista’, ‘il gruppettaro’: all’inizio designava quegli esponenti della sinistra più estremista. Adesso ultrà è chi, all’interno dei vari gruppi e delle diverse situazioni, assume gli atteggiamenti più radicali». «Zerizzazione. Parola “double-face”. È sinonimo di azzeramento, nel linguaggio politico-sindacale. Ma indica anche una moda, quella del cantante Renato Zero».
Faccio un piccolo gioco con me stesso. Provo a vedere se conosco e se uso le parole e le frasi indicate, se sono ancora vive a parer mio, se il loro significato si è modificato, se sono entrate stabilmente nella lingua e i vocabolari le registrano. Invito i lettori a fare lo stesso gioco, ognuno può valutare in prima persona i sintomi di evoluzione della lingua. Tutti conosciamo l’italiano (è il titolo di un mio libro recente, seppure con il punto interrogativo), quindi possediamo le credenziali per giudicare. Senza presumere, con questo, che il giudizio di un singolo valga per un’intera collettività, la sensibilità verso i fenomeni linguistici in movimento cambia caso per caso. E anche la competenza specialistica necessaria per riflettere e valutare. Vale per la linguistica, vale sempre. In questo periodo di pandemia abbiamo capito che le opinioni non sono tutte uguali: l’opinione del prof. Galli, il bravissimo virologo che abbiamo imparato ad apprezzare, non può essere paragonata a quella di un «no vax» incompetente.
Torniamo alla lingua. Ancora oggi, la pubblicità mostra ragazzi di bell’aspetto, che curano il mal di gola incipiente con un ottimo spray, gioiosamente apostrofati con l’appellativo “boccasana” da coetanei di aspetto altrettanto gradevole; lo stesso appellativo “boccasana” identificava uno dei due soldati di guardia all’altare della Patria che, in uno spot di qualche anno fa, curavano il mal di gola con pasticche della medesima casa farmaceutica. Va ancora di moda il «forte amaro delle ore piene», che «digestimola per continuare la festa, per godere la tavola, per afferrare la vita», come spiegava il famoso Carosello degli anni Settanta. «Coca Cola chi vespa mangia le mele / Coca Cola chi?!? / Coca chi non vespa più e mangia le pere» cantava Vasco Rossi in «Bollicine» (1983), canzone che facendosi beffe della pubblicità induceva a riflettere sulle dipendenze dissimulate che essa provoca, citando famosi slogan, entrati inavvertitamente nella testa di tutti: «Chi Vespa mangia le mele», «Birra. E sai cosa bevi», «TV Sorrisi e Canzoni. E sei protagonista!», «Denim. Per l’uomo che non deve chiedere. Mai».
La pubblicità produce lingua con ritmo instancabile. Crea forme e modi nuovi, a getto continuo. Ma naturalmente la spinta più forte ai cambiamenti della lingua viene dai sommovimenti della società. I vocabolari, quando le innovazioni si diffondono, registrano, precisano. Prendiamo alcune parole viste prima, notiamo le differenze. «Blitz» può assumere anche un’accezione scherzosa: «ho fatto un blitz in cucina e ho mangiato una fetta di torta». Preceduto dall’articolo indeterminativo, «casino» significa ‘tanto, moltissimo’: «quel film mi è piaciuto un casino». Nel linguaggio dello sport «ultrà» (anche «ultràs, ultras») indica il tifoso di una squadra di calcio, specie inserito in un gruppo organizzato, che per fanatismo può arrivare a compiere atti di violenza nei confronti dei sostenitori della squadra avversaria e anche azioni di generico vandalismo. «Zerizzazione» è parola scomparsa, credo che nessuno la usi ai nostri giorni.
In quel supplemento giornalistico da cui siamo partiti ci sono molti altri temi che per ragioni di spazio non ho potuto trattare (chissà, forse ne parleremo in un’altra occasione).

E, nello stesso tempo, ovviamente mancano temi (di cui la nostra rubrica si è occupata più volte) venuti alla ribalta recentemente, di cui in quegli anni non si parlava: il femminile di alcune cariche o professioni (sindaca, architetta), le diverse forme della comunicazione in rete, l’insegnamento dell’italiano nella scuola e nell’università, ecc. Ma una conclusione è possibile. Le lingue cambiano, incessantemente. Bastano i pochi esempi che abbiamo presentato a farci riflettere sui mutamenti del lessico italiano, anche in un lasso di tempo abbastanza ristretto. Alcuni decenni, nella vita delle lingue, corrispondono ad alcune ore nella vita degli individui.

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