Calabresi: «Per ritrovare me stesso mi fingevo qualcun altro»

Calabresi: «Per ritrovare me stesso mi fingevo qualcun altro»
di Eleonora Leila MOSCARA
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Giovedì 5 Maggio 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 7 Maggio, 10:09

“C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce” recita l’aforisma di Leonard Cohen. È proprio nel momento più buio della vita che Paolo Calabresi, regista, attore, trasformista e adesso anche scrittore, ha incontrato il suo lampo di genio, la sua follia, l’oro con cui nascondere le crepe come la tecnica del Kintsugi insegna. Con il libroTutti gli uomini che non sono” uscito per Salani lo scorso 10 marzo, Calabresi racconta la sua esilarante “storia vera di una falsa identità” fatta di imitazioni e travestimenti. Il romanzo racconta la storia del paziente Paolo C. affetto da sindrome da personalità multipla, lo psichiatra che lo ha in cura fa ascoltare durante una conferenza i nastri in cui il paziente racconta dei suoi travestimenti, nel pubblico c’è anche Fiamma, sua moglie e moglie del vero Calabresi. L’attore scrittore ha costruito una trama attorno alla storia dei travestimenti che ha deciso di raccontare, episodi tutt’altro che inventati, perché Paolo Calabresi, per quasi dieci anni, ha deciso di vivere così.

La sua “prima volta” arriva nel 2000 a pochi anni dalla scomparsa dei suoi genitori: «I miei sono morti a dieci giorni di distanza l’uno dall’altra, in una maniera un po’ poetica devo dire. Mia madre era giovane ma ammalata da tempo e, quando mio padre ha capito che per lei non c’era più nulla da fare, si è fatto venire un infarto anticipandola di pochi giorni - racconta l’attore - io e miei fratelli abbiamo avuto la netta sensazione che avessero deciso di andar via insieme. Due mesi dopo è morto Giorgio Strehler, il mio maestro, colui che mi ha insegnato a fare questo mestiere.

Questa serie di lutti mi ha provocato una forma di rifiuto verso il mio lavoro che ho vinto facendo questo grande scherzo, in realtà non programmato, io volevo solo andare a vedere la partita» (ride).

In quei momenti di estrema malinconia e tristezza, l’unico sollievo arriva dal calcio, passione carica di ricordi della sua infanzia, coltivata proprio con il suo papà. C’è una partita importante per la sua amata Roma, quella contro il Milan a San Siro, ma i biglietti sono finiti. Nasce così l’idea del suo primo travestimento e, sfruttando una certa somiglianza con Nicolas Cage, varca l’ingresso dello Stadio Meazza. 

Come è andato il primo grande travestimento?

«Tutto è nato in maniera involontaria. Un mio amico mi suggerì di chiedere i biglietti al posto di qualcun altro, in quei giorni usciva il film di Scorsese “Al di là della vita” con Cage protagonista e allora mi finsi lui. In realtà volevo solo i suoi biglietti, non travestirmi. Ma il Milan era talmente contento di ospitare una star hollywoodiana, da annunciarlo con una grande campagna mediatica. La scelta più saggia sarebbe stata quella di non andare, ma avendo la sensazione di non avere più nulla da perdere, decisi che non potevo più esimermi: sarei stato Nicholas Cage. Contro ogni previsione non solo riuscii a farla franca, ma nessuno si accorse dell’inganno, compresi i telegiornali che diedero grande risalto alla presenza della star hollywoodiana definita “infastidita”, per non avere troppe telecamere addosso me la tiravo un po’».

Cosa racconta davvero questo romanzo?

«Racconta la vita che ci regala occasioni sempre inaspettate, che ci sorprende moltissimo nei momenti belli ma anche nei più brutti. Tutto è nato da un’esigenza molto concreta e cioè la mia passione per la Roma. Mi piace pensare di essere stato bravo a cogliere questo regalo che qualche angioletto ha voluto farmi. Immagino mio papà che mi avrà detto “fila a vedere la Roma”, mia madre avrà storto il naso pensando, come sempre, che fossi un po’ pazzo e Strehler il mio maestro che mi esorta dicendo “vai a fare ciò che sai fare”».

Nonostante nel libro ne descriva solo dieci, Calabresi ha continuato con i travestimenti per anni, molti dei quali mai rivelati, prima di farli anche con Le Iene e dunque per lavoro, per molto tempo l’attore ha trasformato il palcoscenico della vita, nel suo personale palcoscenico: è stato John Turturro ai David di Donatello nel 2001, il leader africano Mister Babu in un incontro ufficiale con l’allora sindaco di Roma Walter Veltroni, Marilyn Manson al Galà della pubblicità di Canale 5 nel 2003. E così via.

«Mi sentivo ripagato da tutto ciò che facevo, mi travestivo solo per me stesso, ero, diciamo, in versione pioneristica. Il senso era estremo per me come attore, mi fingevo altre persone in situazioni reali all’insaputa di tutti e questo mi aiutava a stare bene e a ritrovare la mia vera ispirazione artistica».

Com’è stato scrivere il suo primo libro?

«Terapeutico e bellissimo, scrivere ti riempie e ti butta in una dimensione straordinaria di conoscenza di te stesso che cambia la dimensione e la misura della vita».

La presenza dell’attore a Lecce e in Puglia non è affatto casuale in questi giorni, Paolo è infatti il padre di Arturo Calabresi, difensore del Lecce, pronto a giocare l’importante partita di venerdì sera contro il Pordenone.

«Sono felice che mio figlio sia in questa squadra, non solo per i colori che sono quelli della mia Roma, ma anche per le persone leccesi e salentine che trovo abbiano una signorilità d’animo molto profonda e simile alla sua, non solo come calciatore ma anche come persona. Vorrei tranquillizzarvi tutti perché in tutte le partite che ho visto al Via del Mare, il Lecce ha sempre vinto, per quattro volte e sempre con la mia faccia. Ricordo quando nel 1984, il Lecce che era già retrocesso, impedì alla Roma di vincere lo scudetto battendola in casa per 2 a 3. La mia vera missione è quella di cercare un motivo per perdonare il Lecce e i leccesi per quei due gol di Barbas e Pasculli. Ti saluto con questo augurio... e forza Lecce».

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