Panini, il racconto di una passione nel romanzo firmato da Garlando

Panini, il racconto di una passione nel romanzo firmato da Garlando
di Massimiliano IAIA
5 Minuti di Lettura
Mercoledì 18 Maggio 2022, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 16:20

“Le figurine sono i santini moderni. Possedere l’immagine significa possedere quella persona, i suoi poteri, la lampada con il genio dentro. La figurina dell’eroe e l’eroe sono la stessa cosa”. Questo è un passaggio del libro, ma questa non è solo una storia di figurine. “L’album dei sogni” (ed. Mondadori), scritto dal giornalista Luigi Garlando, firma di punta della “Gazzetta dello sport”, è il racconto della straordinaria storia della famiglia Panini, che con pochissimi mezzi e tanta inventiva è riuscita a costruire un impero, partendo dall’acquisto di una semplice edicola, arrivando a produrre autonomamente le bustine e le figurine che hanno appassionato milioni e milioni di ragazzini, alle prese per anni con le collezioni, gli scambi e il classico “celo-manca-celo (sic, perché scorrendo i doppioni può pure essere perdonata una storpiatura grammaticale). Un romanzo che attraversa, di fatto, tutta la storia d’Italia, dalla Prima alla Seconda Guerra Mondiale, dagli anni del boom e della Dolce Vita, passando poi per gli anni di piombo.

Puglia, un libro aperto per il Salone di Torino

Garlando, come nasce l’idea di raccontare la storia della famiglia Panini?

«È stata innanzitutto una idea della casa editrice, che ha fortemente voluto questo libro, in una fase storica in cui le saghe familiari stanno riscuotendo un grande successo, penso a “i leoni di Sicilia”.

Io avevo già scritto un romanzo, “Cielo manca”, in cui si parlava di figurine, e sono stato molto felice di raccontare la storia di questa straordinaria famiglia e di questo fantastico progetto industriale».

Cosa l’ha colpita maggiormente dei Panini?

«Proprio le vicende appassionanti della famiglia, otto fratelli con una mamma rimasta vedova a 41 anni in tempo di guerra, nella miseria assoluta, e il successo arrivato soprattutto grazie alla visione di Giuseppe, il figlio maggiore. Una famiglia molto compatta, che ha saputo superare molte difficoltà, tra malattie, lutti e periodi vissuti da emigranti in Venezuela».

Figura centrale è la mamma, Olga, che con la sua saggezza è riuscita non solo a tenere unita la famiglia ma anche a trasmettere valori importanti ai figli. Tra questi, certamente non la ricchezza.

«È proprio così. Faccio una premessa: con la mia firma rischio di “depistare” il lettore, perché sono un giornalista sportivo e temo che le donne possano pensare di avere a che fare con un libro sul calcio. Non è affatto così. È un romanzo, e la protagonista principale è proprio una donna, come si intuisce dalla copertina, che è di color fucsia. Quanto alla saggezza di Olga e al suo restare con i piedi per terra, basti pensare alla caparbietà e al tempo stesso all’umiltà con cui ha gestito l’edicola, per poi restare in azienda. E fino alla fine, con i figli ormai miliardari, si è occupata dell’orto, lasciando un messaggio molto chiaro: a prescindere dal conto in banca, si resta attaccati ai valori contadini di una volta, ossia la serietà, l’impegno, la dedizione al lavoro».

Le figurine sono state un grande strumento per permettere ai bambini e ai ragazzi di socializzare meglio. Oggi, con i giovani che trascorrono il tempo libero con tutt’altro tipo di giochi, fatalmente non è più così. C’è una punta di rammarico?

«Un po’ di nostalgia c’è, innegabilmente. Le figurine ti costringevano a socializzare, non potevi giocarci da solo. Mettevi in gioco le doppie, le barattavi, insomma si stava insieme, a differenza per esempio dei videogiochi o degli smartphone di oggi, che invece isolano chi gioca. E poi c’è anche un altro tipo di nostalgia».

Quale?

«Basta guardare le figurine stesse, come sono cambiati i calciatori. Negli anni Sessanta erano più a misura d’uomo, l’atleta sembrava un uomo della strada, invece oggi è un supereroe, anche dal punto di vista fisico. Persino dallo sguardo, quasi arrogante, un po’ seccato, si ha l’impressione di avere a che fare con qualcosa di lontano dalla normalità. Una volta i calciatori sembravano più impauriti e forse nemmeno pronti ad affrontare la popolarità».

È cambiato tutto...

«Completamente. Vede, anche io come tutti faccio parte della schiera dei collezionisti. Una volta, se non si poteva vedere il campione allo stadio, lo si poteva ammirare solo in figurina. Non c’erano le pay tv, si riusciva a vedere la domenica sera solo un tempo di una partita di campionato, poi per tutta la settimana più nulla. Avere la figurina del proprio campione era qualcosa di magico, era come tenere tra le mani un santino. Oggi si ha tutto, basta accendere la tv e puoi rivedere tutto fino alla noia, i campioni entrano in casa tua, li ascolti mentre sei a tavola, sequenze ininterrotte di partite e conferenze. Non c’è più quella magia».

La personale figurina dei ricordi?

«Roberto Boninsegna. Avevo 12 anni, era il mio mito».

Nel libro si fa chiarezza anche sul caso Pizzaballa, il portiere dalla figurina introvabile.

«Ognuno ha il suo. Il mio era una riserva del Milan, Roberto Casone. Non lo trovavo mai. Ma in fondo era bello anche così».

© RIPRODUZIONE RISERVATA