Omar Di Monopoli: «La mia bestia nella Puglia mannara»

Omar Di Monopoli: «La mia bestia nella Puglia mannara»
di Alessandra LUPO
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Venerdì 21 Aprile 2023, 23:09 - Ultimo aggiornamento: 22 Aprile, 00:28
Omar Di Monopoli, da ieri è uscito con Feltrinelli il suo ultimo libro "In principio era la Bestia". In apertura una sorta di manifesto per i lettori: in epigrafe dopo l'Apocalisse di Giovanni si cita il Libro di Mozilla, easter egg del mondo informatico che in qualche modo smorza i toni?
«La citazione mi ha fatto ridere perché era epica ma con dietro un humus ironico».
Anche fortemente nerd, che uno da lei non se lo aspetta...
«Sa, c'è un'anima molto nerd dietro questa faccia da cowboy».
Questo è un libro a cui tra una cosa e l'altra lavorava da tempo, ambientato in un'epoca che ha fatto capolino in vari suoi racconti brevi.
«Sì, possiamo dire che viva da un decennio. Già dopo l'esordio pensai a una variazione di genere sul racconto della mia terra basata sulla suggestione della Bestia del Gévaudan ma anche del folklore nostrano».
Non solo tarante, quindi?
«No, esiste tutta una serie di citazioni criptozoomorfiche qui in Puglia, dai baroni che nel Foggiano diventavano lupi mannari alle contadine che nel Salento parlavano coi lupi. La sintesi d'altronde è nella mitologia di Licaone, re dell'Arcadia, che viene punito da Zeus e trasformato in lupo che è il padre di Peucezio fondatore di Bari. Se non siamo mannari noi pugliesi».
Le sue suggestioni western qui incontrano la rivoluzione napoletana, un bel salto.
«La rivoluzione napoletana lasciò la Terra d'Otranto in uno stato di disfacimento e autarchia ma anche di selvaggio furore. Tutto questo mi affascinava moltissimo dal punto di vista narrativo».
Anche questo libro parte dal ritrovamento di un corpo senza vita. Lei ha detto che il Sud si presta bene al noir perché è iperbolico. Lo era già nel 700?
«Sì, e si presta benissimo anche alle variazioni di genere. Infatti le contaminazioni gotiche che già cercavo di rintracciare nel racconto criminale sono le stesse. Qualche anno fa non avevo ancora maturato il teatro per una storia simile. Ho avuto bisogno di sei libri western per definire anche geograficamente la contea in cui questa storia doveva respirare. Una volta che quella contea ha vissuto di vita propria e ha avuto i propri personaggi nella mia testa Languore, Monte Svevo e Roccabardata, tutti i paesi che sono stati i teatro delle mie storie precedenti, sono diventati un'area, che poi è lo specchio della vecchia Terra d'Otranto, in cui quella bestia girava».
Una presenza anche metaforica?
«Assolutamente: metafora del Sud, del male, della corruzione ma forse più semplicemente l'ombra di noi stessi e la paura dell'ignoto».
Siamo lontani dalle periferie scalcinate dei fratelli Caraglia di Brucia l'aria e Nella perfida terra di dio per incontrare i veri protagonisti del Mezzogiorno latifondista, i contadini.
«Nel libro emerge una netta divisione per censo e un certo gattopardismo che io ravvedo tutt'ora e credo sia alle radici di tanto male contemporaneo: c'è il potere del denaro e quello che soverchia i più deboli»
La sua attenzione resta puntata sulle vicende di chi normalmente sarebbe lontano dai riflettori.
«Sì, nel mio sguardo c'è spesso questa sorta di nostos , di nostalgia del ritorno. Questa volta ad arrivare qui sono degli stranieri, dei soldati borbonici che con i loro occhi diffidenti prima fotografano il Sud e poi in qualche modo ne vengono toccati scoprendosi a loro volta umani pieni di difetti. D'altronde nel gioco delle cose umane vi è sempre il fatto di essere crudeli, maledetti, terribili ma allo stesso tempo capaci di compassione. L'unica cosa che può salvarci».
Un'eco manzoniana?
«Ci sono molti riferimenti letterari, certo. anche molta letteratura d'antan. Non voglio rivelare troppo del libro ma c'è soprattutto uno dei personaggi, uno di questi sei soldati, che a un certo punto capisce che il male non sta semplicemente da una parte, così come il bene».
Lo studio sul linguaggio, che caratterizza da sempre i suoi romanzi, qui cambia. Spiegaci come hai proceduto.
«Intanto è la prima volta che utilizzo le virgolette nel discorso diretto, erano vent'anni che non lo facevo. È stata una sfida che Feltrinelli mi ha proposto».
Com'è andata?
«Mi sono forzato e mi è servito perché sinora avevo cercato di inscatolare la storia nella mia voce consueta. Invece questa volta mi sono concesso delle aperture mainstream e il romanzo ha trovato una risoluzione. Mi sono divertito nel lasciare che un po' di napoletano arcaico subentrasse nei miei dialoghi e in questo mi sono fatto aiutare da madrelingua. Al tempo stesso però il lirismo di certe descrizioni, tipico della mia produzione, resta intatto e anche lo sguardo corale su alcuni personaggi».
A proposito di mainstream: Nella perfida terra di dio è diventato un fumetto per Sergio Bonelli. Si è chiuso il cerchio con le sue origini di fumettista oppure si è aperto un nuovo filone?
«Stiamo valutando di trasformare anche altri libri in fumetto. E questo si presterebbe molto bene».
Nuovi progetti?
«Per ora un libro per ragazzi che mi hanno commissionato. Per la prima volta scriverò per un pubblico di giovanissimi».
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