Nichi Vendola e il patriottismo del “restare umani”

Nichi Vendola e il patriottismo del “restare umani”
di Mario CARPARELLI
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Giovedì 29 Luglio 2021, 05:00

“La mia patria è una pietra / d’inciampo / un lampo / che rompe il confine”. Sono i versi conclusivi di “Patrie”, la poesia-manifesto che dà il titolo e apre la raccolta di Nichi Vendola pubblicata da “il Saggiatore”. Il 16 ottobre del 1943 1259 persone, di cui 689 donne, 363 uomini e 207 tra bambine e bambini, furono radunate dalle truppe tedesche della Gestapo. La retata degli ebrei di Roma avvenne principalmente al ghetto, in particolare in via Portico d’Ottavia, ma anche in altre differenti zone della città. Almeno 1023 persone furono deportate al campo di sterminio di Auschwitz. Soltanto 16 di loro tornarono a casa.

Nel 1993, l’artista tedesco Gunter Demnig avviò il progetto degli “Stolpersteine”, le pietre d’inciampo. Si tratta di sampietrini, collocati di fronte all’abitazione dei deportati, che si differenziano dagli altri per avere la superficie in ottone, sulla quale sono incisi nome, cognome, data di nascita, data e luogo di deportazione e, quando nota, la data di morte.

La "pietra d'inciampo"

Proprio la “pietra d’inciampo” diventa nella silloge poetica di Nichi Vendola il fondamento di qualunque idea di patria. Il patriottismo contemporaneo, secondo l’ex presidente della Regione Puglia, non può non partire da quella memoria, da quella consapevolezza, dalla scena dell’orrore che il “cattivo patriottismo” – quello dei fascismi, dei nazionalismi, dei sovranismi – ha prodotto nel cuore del Novecento. Quello che attraversa le 82 liriche di Vendola è, al contrario, un patriottismo militantemente nemico di quanti amano i muri, i confini, le dogane, i fili spinati; di quanti considerano patrioti i propri simili e stranieri – e dunque nemici – tutti gli altri. È un patriottismo del genere umano che traccia poeticamente Vendola, un patriottismo del restare umani.

Restare umani in primo luogo nei confronti degli sconfitti. Sconfitti non per un destino astratto o per volontà del cielo, ma a causa di una globalizzazione che ha promesso molto e mantenuto poco, alimentando così il risorgere di certi fantasmi del passato, che oggi anche in Italia assediano la vita pubblica e la politica. Si tratta del razzismo, della xenofobia, dell’omofobia, dell’antisemitismo che sempre di più minacciano la convivenza civile e che rappresentano per Vendola non solo manifestazioni di antipatriottismo ma anche e soprattutto la viltà umana e la barbarie, che anche con le parole della poesia, oltre che con le parole della vita pubblica, devono essere combattute. 

La poesia

Se è vero che siamo entrati nell’epoca del post-umano, le poesie di Vendola ci insegnano però che c’è qualcosa che resiste, un elemento che nessuna mercificazione, nessuna commercializzazione, nessuna mistificazione dentro codici comunicativi sempre più eterei può cancellare: è l’istinto insopprimibile a cercare negli altri, nello sguardo degli altri, nell’etica del volto il senso della propria vita. 
Lo si è capito ancora di più durante la pandemia che abbiamo vissuto e che in parte continuiamo a vivere, alla quale Vendola dedica la toccante poesia “Solo questo”.

Le misure di contenimento del Covid-19 hanno messo al bando la cosa più importante per noi esseri umani: la socialità. Il distanziamento sociale ha rappresentato e rappresenta la morte del senso della vita. Questo isolamento coatto ha tolto persino bellezza alla solitudine, quando la solitudine è contemplazione, preghiera, scelta, tempo di otium o di autocoscienza. La colonna sonora di questa solitudine obbligatoria è stata il “canto dell’ambulanza”, in un contesto in cui non soltanto la vita è cambiata, ma anche la morte. La morte senza lutto, senza i riti sociali del lutto. I versi finali e paradossali di questa poesia – “corro su me stesso / per abbracciarti piano / ma solo da lontano” – sono proprio l’espressione di quel baratro di senso su cui abbiamo camminato, barcollando, in questo anno e mezzo che ci ha lasciato in eredità una ferita che dobbiamo ancora elaborare.

La poetica di Vendola, che si nutre sia delle emozioni più intime dell’uomo che delle battaglie civili e sociali del politico, consiste in definitiva nel teorizzare e praticare lo sconfinamento. Non solo con gli occhi rivolti al passato, ma guardando anche e soprattutto al futuro. Come chiarisce la poesia “L’età non ha rapito”, una sorta di confessione attraverso la quale emerge l’importanza delle utopie come principio di fondazione dei percorsi individuali e collettivi: “L’età non ha rapito il mio respiro / ne ha solo confuso la struttura / lo ha stordito / senza colpirne la natura / lo ha mutato in trepida apnea / o in un vortice d’affanno / ma è solo un danno / di stagione / immagino prodigi da stregone / se ancora cerco / dentro l’antico pozzo / la luce e il suo memento / che poi soffia il giorno nuovo / e nasconde il mio spavento”.

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